Il rapporto del GREVIO sull’applicazione in Italia della Convenzione di Istanbul: il lavoro ancora da fare

GREVIO, Rapporto di valutazione (di base) sull'Italia, 13 gennaio 2020

Il contributo ripercorre le considerazioni svolte dal Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (GREVIO) in occasione della loro valutazione dello stato di attuazione della Convenzione di Istanbul da parte del nostro Paese, soffermandosi sulle criticità riscontrate e sulle indicazioni fornite alle autorità italiane per rendere maggiormente efficace il contrasto al fenomeno.

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Il 13 gennaio 2020 è stato pubblicato il rapporto del GREVIO sullo stato di applicazione in Italia della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul). Il Gruppo di esperte ed esperti ha indicato all’Italia la strada da seguire per contrastare efficacemente la violenza di genere.

Il GREVIO, come è noto, è un organo indipendente, composto da un minimo di 10 e un massimo di 15 rappresentanti degli Stati firmatari, che hanno lo specifico compito di monitorare l’attuazione delle previsioni della Convenzione di Istanbul all’interno dei Paesi firmatari e di fornire ad essi, nell’ambito del rapporto conclusivo della loro indagine, raccomandazioni volte a rendere la normativa nazionale e la prassi applicativa sempre più in linea con gli obiettivi della Convenzione stessa[1].

Nel suo rapporto il GREVIO ha espresso perlopiù apprezzamenti nei confronti della legislazione italiana che, a partire dal 2009, con l’introduzione del reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), è andata ampliando gli strumenti normativi volti a prevenire e combattere la violenza contro le donne. Poche, dunque, le raccomandazioni riguardanti la disciplina nazionale. È stata, ad esempio, suggerita la possibilità di migliorare la formulazione del reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) incentrandone il disvalore sulla assenza di un libero consenso all’atto sessuale da parte della vittima, come peraltro già previsto dall’art. 36 della Convenzione, ed è stata altresì raccomandata l’introduzione di una norma specificamente volta a sanzionare le molestie sessuali, sulla scia di quanto indicato nell’art. 40 della medesima Convenzione. Quest’ultima in effetti manca ancora nel nostro ordinamento e tali comportamenti vengono dalla giurisprudenza ricondotti talvolta al reato di violenza sessuale, altre volte ai maltrattamenti in famiglia o agli atti persecutori, anche se permangono evidenti vuoti di tutela laddove essi siano realizzati in ambito lavorativo, e per la loro frequenza, talvolta quotidiana, creano “un clima intimidatorio, ostile, umiliante, degradante o offensivo[2].

Diverse, invece, le preoccupazioni sollevate dal Gruppo di esperte ed esperti del Consiglio d’Europa rispetto a certe prassi applicative che, pur in presenza di buoni strumenti legislativi, vittimizzano ulteriormente la donna che denuncia gli abusi subiti e contribuiscono a rendere difficoltosa la sua fuoriuscita dalla spirale della violenza. Un avvertimento riguarda, tra gli altri, l’affidamento dei minori in casi di violenza domestica: è emerso, infatti, che spesso le madri non denunciano la violenza subita perché spaventate dalla prospettiva di perdere i loro figli. Sono molti i casi giudiziari in cui si è ritenuto, anche a causa di superficiali consulenze tecniche d’ufficio, che una madre che ha subito per anni senza denunciare immediatamente il compagno violento non sia adeguata a prendersi cura dei minori; altre volte si perviene invece a dubitare della donna[3] o si sminuisce la violenza da lei denunciata e, in nome del principio della bi-genitorialità[4], si affidano i figli anche (o addirittura solo) al padre violento, finendo così per vittimizzare una seconda volta la donna.

Un altro aspetto oggetto di attenzione è stata la scarsa applicazione che hanno ricevuto, in sede civile, gli ordini di protezione (artt. 342-bis e 342-ter c.c.): uno strumento normativo introdotto nel 2001, che permette di mettere in sicurezza la donna che subisce violenza da parte del convivente, allontanando quest’ultimo dalla casa familiare o vietandogli di avvicinarsi a lei, senza che sia necessaria una denuncia e l’inizio quindi di un faticoso procedimento penale. L’ordine di protezione civile è una risorsa se viene disposto celermente e inaudita altera parte, ovvero senza sentire la persona che genera il pericolo; è invece molto rischioso per la donna se interviene dopo una lunga istruttoria. Nondimeno, i giudici italiani difficilmente applicano questa misura in tempi rapidi e raramente rinunciano ad ascoltare l’uomo maltrattante. Ciò ha dato origine ad una prassi che induce gli stessi avvocati a sconsigliare alla vittima di rivolgersi all’Autorità giudiziaria civile, per l’ulteriore situazione di pericolo nella quale potrebbe venirsi a trovare[5]. E ancora, nel Rapporto viene evidenziata la persistenza di troppi stereotipi di genere nelle aule giudiziarie, così come nelle motivazioni delle sentenze, a dimostrazione di una scarsa comprensione – da parte degli stessi giudici – del fenomeno della violenza contro le donne. Una limitata conoscenza che pure emerge nell’applicazione del reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) che viene ritenuto provato solo laddove sia riscontrabile uno stato di sottomissione della donna che subisce violenza dall’uomo, assolvendosi altrimenti l’imputato[6]. Un requisito che non è esplicitamente indicato nella norma incriminatrice - né tantomeno compare nella definizione di violenza domestica fornita dalla Convenzione di Istanbul[7] - e che, tuttavia, viene utilizzato dalla giurisprudenza per delimitare i maltrattamenti da quelli che vengono definiti casi di semplice “conflittualità di coppia”.

Nei confronti di prassi di questo tipo appare necessaria una maggiore comprensione del fenomeno della violenza contro le donne tra le figure professionali che se ne occupano; una diffusa consapevolezza che purtroppo manca anche a causa di scelte politico-legislative volte più che altro ad un (inutile) inasprimento sanzionatorio di reati come quello di maltrattamenti in famiglia e di violenza sessuale, piuttosto che alla promozione di un pensiero sensibile alle tematiche di genere che renda i giuristi consapevoli della “natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, […riconoscendo] altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini[8]. Nel rapporto viene infatti segnalata la necessità di promuovere progetti formativi sulla violenza di genere, che aiutino gli operatori del diritto a comprendere meglio il fenomeno e a cogliere i numerosi stereotipi ancora presenti nella realtà circostante, con l’obiettivo di erodere le idee patriarcali nelle quali siamo immersi e che spesso fatichiamo a riconoscere. Sarebbe inoltre necessario rafforzare i rapporti del Governo con le organizzazioni sul territorio che si occupano di donne che hanno subito violenza (come i centri antiviolenza e le case rifugio) e, soprattutto, promuovere la comunicazione tra le Autorità che a vario titolo si occupano di uno stesso caso di violenza che, come è emerso, può coinvolgere tanto la sfera penale, quanto quella civile (in particolare nei casi in cui vi siano minori coinvolti). Diversamente da quanto oggi accade, questi procedimenti andrebbero infatti trattati in maniera condivisa e dialogata al fine di comprendere a fondo tutte le sfaccettature della situazione concreta e arrivare ad una decisione che sia nel vero interesse delle donne e dei minori interessati.

Le raccomandazioni contenute nel Rapporto del GREVIO sullo stato di applicazione in Italia della Convenzione di Istanbul non vanno sottovalutate perché, come noto, la Convenzione, ratificata dall’Italia nel settembre 2013, ha valore vincolante sia per il legislatore che per il giudice italiano: da un lato, il legislatore infatti non può introdurre norme che contrastino con gli obiettivi della Convenzione e, dall’altro lato, il giudice ha l’obbligo di interpretare ogni legge nazionale in maniera conforme alla Convenzione[9]. Ancor di più, laddove non sia possibile una interpretazione della legge nazionale in armonia con la Convenzione, a causa del suo tenore letterale, il giudice è tenuto a sollevare una questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale, prospettando la violazione dell’art. 117 della Costituzione, che vincola lo Stato italiano al rispetto degli obblighi assunti sul piano internazionale.

L’acquiescenza di fronte a queste prassi potrebbe del resto esporre l’Italia ad una condanna da parte della Corte europea dei diritti umani che, sempre più spesso, quando si trova ad affrontare casi di violenza domestica o di violenza sessuale, integra e rafforza i principi generali previsti dagli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (proibizione della tortura), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione, non solo richiamando la Convenzione di Istanbul ma anche gli stessi rapporti del GREVIO[10].

 

[1] Tale meccanismo di controllo è previsto dagli artt. 66 e ss. della Convenzione di Istanbul. I membri del GREVIO sono, in particolare, eletti ogni 4 anni dal Comitato delle Parti (organo politico composto dai rappresentanti ufficiali dei Paesi parte della Convenzione) tra i cittadini e le cittadine degli Stati firmatari con nota esperienza in tema di diritti umani, parità dei sessi e violenza contro le donne. La procedura di selezione deve peraltro garantire l’equilibrio tra i sessi, un’equa ripartizione geografica e competenze multidisciplinari.

[2] Questa la definizione di molestie sessuale sul luogo di lavoro dell’art. 26 del d.lgs. 198/2006 (c.d. Codice della Pari Opportunità), unica disposizione nazionale, collocata nell’ambito del diritto del lavoro, che si occupa del tema delle molestie sul luogo di lavoro, implementando la Direttiva 2002/73/CE “relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro”.

[3] Ne sono esempio quei casi in cui si dubita anche delle parole del minore coinvolto in quanto lo si ritiene vittima della c.d. sindrome da alienazione parentale: dinamica psicologica secondo la quale, nel corso di una separazione o di un divorzio, un genitore allontana i figli dall’altro, promuovendo una campagna denigratoria nei confronti di quest’ultimo. Sulla pericolosità dell’applicazione in giudizio di questa sindrome si veda la requisitoria della  Sostituta Procuratrice Generale presso la Corte di Cassazione, dott.ssa Ceroni, in un giudizio di impugnazione in Cassazione di una sentenza della Corte d’Appello di Roma con la quale un minore, in una situazione di violenza domestica, era stato collocato in una casa-famiglia, e non invece con la madre, per evitare proprio che potesse diventare vittima della c.d. alienazione parentale (cfr. Procura Generale della Corte di Cassazione, Ricorso R.G. n. 36260/19, ud. camerale del 15.3.2021; provvedimento pubblicato in Osservatorio Violenza sulle Donne e rinvenibile al seguente link https://ovd.unimi.it/il-best-interest-del-minore-prevale-sul-diritto-alla-bigenitorialita-requisitoria-della-sostituta-procuratrice-generale-presso-la-corte-di-cassazione-dott-ssa-francesca-ceroni/).

[4] La disciplina italiana in tema di affidamento è fortemente influenzata dal principio della bi-genitorialità, secondo cui il minore ha diritto ad avere un rapporto stabile con entrambi i genitori, con la conseguenza che l’affidamento esclusivo viene disposto, in via eccezionale, solo laddove quello condiviso sia “contrario all’interesse del minore” coinvolto (art. 337-quater c.c.).

[5] Si rinvia sul punto a F. Roia, Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche, Milano, Franco Angeli, 2017, 136.

[6] Si veda in proposito C. Pecorella, P. Farina, La risposta penale alla violenza domestica: un’indagine sulla prassi del Tribunale di Milano in materia di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), in Riv. trim. dir. pen. cont., 2/2018, 205.

[7] La violenza domestica è definita dall’art. 3, lett. b, della Convenzione di Istanbul come “atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore della violenza condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. Tale definizione è stata tra l’altro ricordata nel Rapporto del GREVIO per sottolineare come in essa non vi sia alcun riferimento all’abitualità degli atti violenti, requisito invece necessario ai fini dell’integrazione, nel nostro ordinamento, del reato di maltrattamenti (art. 572 c.p.).

[8] Così nel Preambolo della Convenzione di Istanbul, traduzione italiana pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.

[9] Obbligo che è stato bene posto in evidenza in una pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella quale, al fine di chiarire l’interpretazione di una disposizione del codice di procedura penale, è stata sottolineata l’importanza di scegliere la lettura della norma che meglio rispecchi le linee di fondo della Convenzione di Istanbul (cfr. Cass., S.U., 29 gennaio 2016, n. 10959, con un commento di C. Bressanelli, La violenza di genere fa il suo ingresso nella giurisprudenza di legittimità: le Sezioni Unite chiariscono l’ambito di applicazione dell’art. 408 co. 3-bis c.p.p., in Dir.pen.cont. 21 giugno 2016).

[10] Cfr., tra le altre, Corte europea dei diritti umani, Seconda Sezione, 4 agosto 2020, Tershana v. Albania, n. 48756/14; Corte europea dei diritti umani, Prima Sezione, 14 maggio 2020, Mraovic v. Croatia, n. 30373/13; Corte europea dei diritti umani, Quarta Sezione, 19 marzo 2019, E.B. v. Romania, n. 49089/10.