L'epilogo del caso Taricco: l'attivazione 'indiretta' dei controlimiti e gli scenari del diritto penale europeo

La chiusura del caso Taricco, sancita dalla Corte costituzionale con la recente sentenza n. 115 del 2018, offre rilevanti spunti non solo per analizzare la dinamica del confronto instauratosi tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia in merito alla possibile disapplicazione in malam partem della disciplina interna degli atti interruttivi della prescrizione, ma anche e soprattutto per riflettere sulle possibili evoluzioni, sul piano interno e sovranazionale, del principio di legalità e in particolare del canone di sufficiente determinatezza della norma penale

1. Il tema.

Con il deposito della sentenza n. 115 del 2018, la Corte costituzionale ha chiuso definitivamente il caso Taricco e aperto nuovi scenari per il principio di legalità penale (anche) nella prospettiva europea. La decisione – anticipata da un comunicato diffuso a ridosso dell’udienza, nel quale ci si era limitati a dichiarare infondate le questioni di legittimità prospettate - suggella la consacrazione della strategia diplomatica messa in atto a tutela dei principi fondamentali dell’ordinamento italiano (in particolare della determinatezza e dell’irretroattività della legge penale), sviluppando rilevanti puntualizzazioni, dense di risvolti sul piano dei rapporti tra ordinamento interno e UE e fra potere legislativo e giudiziario.

 

2. L’evoluzione.

Appare utile riepilogare, preliminarmente, termini e passaggi essenziali della vicenda, che trae spunto dalla prima sentenza Taricco della Corte di Giustizia dell’8 settembre 2015.

 

2.1. L’apertura del conflitto: Taricco I e le questioni di legittimità costituzionale.

Come è ben noto, in tale pronuncia la Grande Sezione della Corte di Giustizia, sollecitata dal GUP presso il Tribunale di Cuneo, ha affermato l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disciplina interna in materia di atti interruttivi della prescrizione emergente dagli artt. 160 e 161 c.p., allorquando ritenga che essa, fissando un limite massimo al corso della prescrizione, impedisca allo Stato italiano di adempiere agli obblighi di effettiva tutela degli interessi finanziari dell’Unione, imposti dall’art. 325 del TFUE, nei casi di frodi tributarie di rilevante entità altrimenti non punite in un numero considerevole di casi.

Due le ravvisate ipotesi di incompatibilità degli artt. 160 e 161 c.p. con il diritto UE: la prima, con riferimento all’art. 325, par. 1 TFUE, allorquando il giudice nazionale ritenga che dall’applicazione delle norme in materia di (interruzione della) prescrizione derivi, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave in materia di IVA o di interessi finanziari dell’Unione europea, di talché la normativa interna impedisca l’inflizione di sanzioni effettive e dissuasive per tali condotte; la seconda, con riguardo all’art. 325, par. 2 TFUE, nel caso in cui il giudice interno verifichi che la disciplina nazionale contempli per i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari interni termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode (di natura e gravità comparabili) lesivi di interessi finanziari dell’UE.

A fronte di ciò, la Corte di Appello di Milano, con ordinanza 18 settembre 2015, e la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con due distinte ordinanze del 30 e 31 marzo 2016, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, aventi ad oggetto l’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, “nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all'art. 325 §§ 1 e 2 TFUE, dalla quale - nell'interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia (…) - discende l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161 secondo comma c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se dalla disapplicazione derivino effetti sfavorevoli per l'imputato, per il prolungamento del termine di prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l'art. 25, co. 2, Cost." (oltre che, nella prospettazione dei giudici di legittimità, con gli artt. 3, 11, 27, co. 3, 101, co. 2, Cost.).

L’opzione prescelta ha riportato al centro del dibattito, anche penalistico, la dottrina dei controlimiti – a lungo relegata in una sorta di ‘limbo applicativo’ – nei confronti dell'ordinamento europeo. A supporto è stato invocato il principio di legalità, vulnerato, ad avviso dei giudici a quibus, per l’aggravamento del regime della punibilità di natura retroattiva derivante dalla disapplicazione delle norme relative agli atti interruttivi della prescrizione, concernendo anche le condotte anteriori alla data di pubblicazione della sentenza Taricco, e per la carenza di una normativa adeguatamente determinata, non essendo chiaro né quando le frodi debbano ritenersi gravi, né quando ricorra un numero considerevole di casi di impunità da imporre la disapplicazione, essendo la relativa determinazione rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice.

 

2.2. L’ordinanza n. 24 del 2017 e la scelta del rinvio pregiudiziale.

Con l’ordinanza 26 gennaio 2017, n. 24, la Corte costituzionale, condividendo talune delle prospettate obiezioni, ha optato per una soluzione dialogica, rinviando in via pregiudiziale la questione alla Corte di Giustizia, con la richiesta di avallare una lettura ‘costituzionalmente conforme’ della sentenza Taricco. Il percorso argomentativo si fonda su tre punti fermi:

1) è riaffermato il “primato del diritto dell’Unione” quale dato acquisito nella giurisprudenza costituzionale, ai sensi dell’art. 11 Cost., condizionato all’osservanza dei “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona” (§ 2) e al contempo è condivisa l’individuazione della Corte costituzionale quale organo deputato a risolvere eventuali conflitti che con essi possano insorgere (§ 6);

2) è ribadito come la legalità in materia penale, di cui all’art. 25, co. 2 Cost., rappresenti un “principio supremo dell’ordinamento”, posto a presidio “dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva” (§ 2), ma anche quale suggello del principio-cardine della riserva di legge e della separazione dei poteri, “di cui l’art. 25 co. 2 Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale” (§ 5), in stretto collegamento con i limiti dei poteri del giudice, “al quale non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale" (§ 5);

3) è consacrata la natura sostanziale della prescrizione, pienamente assoggettata pertanto al principio di legalità, non solo con riferimento al divieto di retroattività ma anche alla sufficiente determinatezza della norma relativa al regime di punibilità, dovendo pertanto essere analiticamente descritta, al pari del reato e della pena, da una norma vigente al tempo di commissione del fatto (§ 4).

A ciò si accompagna l’enunciazione di una sorta di clausola di salvaguardia: anche se si dovesse accedere a una lettura della prescrizione – o del solo peculiare regime degli atti interruttivi - di natura processuale, o che comunque possa essere regolata da una normativa posteriore alla commissione del reato, “ugualmente resterebbe il principio che l’attività del giudice chiamato ad applicarla deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate” (§ 9).

Nella prospettiva di valorizzare l’esigenza di determinatezza della norma relativa al regime di punibilità (§ 9), si evidenzia che l’art. 325 TFUE, “pur formulando un obbligo di risultato chiaro e incondizionato (…), omette di indicare con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire per conseguire lo scopo”, finendo per legittimare la figura di un giudice sciolto dal rispetto di qualsivoglia elemento normativo, se di ostacolo alla finalità repressiva del reato (§ 9). Il dictum della sentenza Taricco viene ritenuto non conforme al requisito della determinatezza delle norme di diritto penale sostanziale (principio che “appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto”) e quindi non coerente con lo scopo “di consentire alle persone di comprendere quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale” e “di impedire l’arbitrio applicativo del giudice” (§ 5).

Ravvisata l’incompatibilità, la Corte costituzionale, come detto, ha optato per un (ulteriore) rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, fondato su un’indiretta - ma chiara - richiesta ai giudici europei di un’interpretazione ‘correttiva’, volta a chiarire se l’art. 325, §§ 1 e 2, del TFUE (nei primi due quesiti) e la sentenza Taricco (nel terzo) debbano davvero essere interpretati nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osti in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che preveda termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli contemplati per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato “anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata”, “anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità” e “anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro”.

 

2.3. Taricco II: il passo indietro della Corte di Giustizia e le questioni ancora aperte.

La Grande Sezione della Corte di Giustizia, disattendendo le conclusioni dell’Avvocato generale, è intervenuta con una seconda sentenza (del 5 dicembre 2017, d’ora in avanti, pure Taricco II o M.A.S.), nella quale, vincendo la tentazione della primazia a tutti i costi, si è sforzata di comprendere le ragioni costituzionali interne, scegliendo una soluzione di onorevole compromesso, in grado, al di là della soluzione tecnica, di realizzare una forma di possibile consonanza tra il dictum della Corte di Giustizia e i principi costituzionali interni.

La chiave di volta, che ha consentito di disinnescare la potenzialità dirompente del conflitto superando l’imbarazzo di un passo indietro troppo evidente, è stata l’adeguata valorizzazione dei paragrafi §§ 53 e 55 della sentenza del settembre 2015, che ha portato a sostenere che “i giudici nazionali competenti, quando devono decidere, nei procedimenti pendenti, di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, sono tenuti ad assicurarsi che i diritti fondamentali delle persone accusate di avere commesso un reato siano rispettati” (§ 46). Non meno rilevante la sottolineatura del peso – anche in chiave sovranazionale – del principio di legalità, ricondotto, nei suoi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile (§ 51), agli artt. 49 e 51 della Carta, alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e all’art. 7, § 1 CEDU. Messa quindi in risalto la libertà dell’ordinamento italiano di inquadrare, all’epoca (in assenza di un obbligo di armonizzazione), il regime della prescrizione nell’ambito del diritto penale sostanziale, assoggettato come tale al principio di legalità dei reati e delle pene e ai suoi corollari, si riconosce l’applicabilità di questi ultimi, nell’ordinamento giuridico italiano, “anche al regime di prescrizione relativo ai reati in materia di IVA” (§ 58).

Ebbene, ogni volta in cui il giudice nazionale dovesse essere “indotto a ritenere che l’obbligo di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione contrasti con il principio di legalità dei reati e delle pene”, non sarà tenuto “a conformarsi a tale obbligo, e ciò neppure qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione”; spetterà invece al legislatore nazionale il compito di “adottare le misure necessarie” che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’art. 325 TFUE (§ 61).

La prospettata interpretazione dell’art. 325 TFUE è dunque nel senso che “esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato” (§ 62).

Nonostante le aperture della Corte di Giustizia, restavano irrisolti non pochi dubbi, forieri di potenziali disorientamenti applicativi. In particolare, se per quanto concerne i fatti commessi prima dell’8 settembre 2015 non residuava incertezza – anche grazie alle prese di posizione della Cassazione - sulla cogenza del limite alla disapplicazione retroattiva dei termini prescrizionali, non era invece del tutto chiaro se tale limite potesse essere esteso anche ai fatti commessi dopo la prima sentenza Taricco, dal momento che, sul piano giudiziario, per i casi successivi a tale data, la disapplicazione delle norme nazionali incompatibili con il diritto europeo era comunque rimessa a una valutazione, caso per caso, del giudice comune. Senza dimenticare come una lettura ‘minimalista’, volta ad escludere temporalmente dall’obbligo di disapplicazione i soli fatti commessi prima del settembre 2015, poteva in fondo appagare unicamente il versante della prevedibilità e dell’irretroattività, che tuttavia, come è ben noto, non esauriscono il portato garantista della legalità penale, il cui nucleo essenziale - a ricordarlo è la stessa Corte costituzionale nell’ordinanza n. 24 – risiede nella separazione dei poteri (proiezione della riserva di legge) e nella determinatezza della norma penale, profili entrambi compromessi da una disapplicazione in malam partem di matrice giurisprudenziale, ancorata a parametri assolutamente generici e vaghi, irrisolti nella loro problematica identificazione anche da Taricco II.

 

2.4. La Corte costituzionale chiude il conflitto: la sentenza n. 115 del 2018.

Queste ultime precisazioni consentono di contestualizzare e apprezzare le ricadute della sentenza n. 115 del 2018 della Corte costituzionale, che trae le mosse proprio dalla seconda pronuncia della Corte di Giustizia, della quale si sottolinea l’operatività su un duplice piano: da un lato, “in virtù del divieto di retroattività in malam partem della legge penale, la «regola Taricco» non può essere applicata ai fatti commessi anteriormente alla data di pubblicazione della sentenza che l'ha dichiarata, ovvero anteriormente all'8 settembre 2015”, trattandosi di “un divieto che discende immediatamente dal diritto dell'Unione e non richiede alcuna ulteriore verifica da parte delle autorità giudiziarie nazionali”; dall’altro, è demandato alle autorità giudiziarie nazionali “il compito di saggiare la compatibilità della «regola Taricco» con il principio di determinatezza in materia penale”, considerato che, in tale evenienza, “per giungere a disapplicare la normativa nazionale in tema di prescrizione, è necessario che il giudice nazionale effettui uno scrutinio favorevole quanto alla compatibilità della «regola Taricco» con il principio di determinatezza, che è sia principio supremo dell'ordine costituzionale italiano, sia cardine del diritto dell'Unione, in base all'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea” (§ 7).

Su un piano più generale, si ribadisce ancora che “l’autorità competente a svolgere il controllo sollecitato dalla Corte di giustizia è la Corte costituzionale, cui spetta in via esclusiva il compito di accertare se il diritto dell'Unione è in contrasto con i principi supremi dell'ordine costituzionale e in particolare con i diritti inalienabili della persona”, con l’aggiunta che “il ruolo essenziale che riveste il giudice comune consiste nel porre il dubbio sulla legittimità costituzionale della normativa nazionale che dà ingresso alla norma europea generatrice del preteso contrasto” (§ 8).

Sebbene si proceda, in entrambi i giudizi principali, “per fatti avvenuti prima dell’8 settembre 2015”, la Corte – a dimostrazione dell’interesse a una definitiva presa di posizione sulla vicenda - reputa le questioni sollevate non prive di rilevanza, dal momento che limitarsi a dichiarare l'avvenuta prescrizione solo sul piano temporale “significherebbe comunque fare applicazione della «regola Taricco», sia pure individuandone i limiti temporali” (§ 10). Il che è ritenuto inappagante, giacché, “indipendentemente dalla collocazione dei fatti, prima o dopo l'8 settembre 2015, il giudice comune non può applicare loro la «regola Taricco», perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall'art. 25, secondo comma, Cost.” (§ 10).

Nell’illustrare siffatta incompatibilità, è richiamata nuovamente la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione e la conseguente riconducibilità “nell’alveo del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma Cost. con formula di particolare ampiezza” (§ 10). Sulla base di tale premessa si stigmatizza – sgombrando il campo da ogni possibile equivoco – il radicale “deficit di determinatezza” che caratterizza sia la "regola Taricco in sé”, sia “l'art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE” (§ 11). Nel dettaglio: quanto alla "regola Taricco", essa risulta “irrimediabilmente indeterminata nella definizione del «numero considerevole di casi» in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita”, non potendosi del resto attribuire a tale giudice “il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.)”; quanto all’art. 325 TFUE, l’indeterminatezza è riconducibile al fatto che “il suo testo non permette alla persona di prospettarsi la vigenza della «regola Taricco»”.

Viene poi ricordato come sia stata la stessa Corte di Giustizia, al § 56 di Taricco II, a dare risalto alla “necessità che le scelte di diritto penale sostanziale permettano all'individuo di conoscere in anticipo le conseguenze della sua condotta, in base al testo della disposizione rilevante, e, se del caso, con l'aiuto dell'interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici”; secondo i giudici costituzionali, “perlomeno nei paesi di tradizione continentale, e certamente in Italia, ciò avvalora (finanche in seno al diritto dell'Unione, in quanto rispettoso dell'identità costituzionale degli Stati membri) l'imprescindibile imperativo che simili scelte si incarnino in testi legislativi offerti alla conoscenza dei consociati”.

Nella dinamica dei rapporti tra potere legislativo e giudiziario, una volta ribadita la prevalenza del “diritto scritto di produzione legislativa”, assume rilievo anche l’“ausilio interpretativo del giudice penale”, ricondotto tuttavia a mero “posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d'ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell'arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo” (§ 11).

Vi è l’eco di importanti precedenti nel precisare che “il principio di determinatezza ha una duplice direzione, perché non si limita a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell'attività giurisdizionale mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma assicura a chiunque «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta”; calato nel caso di specie, l’effetto è che “quand'anche la «regola Taricco» potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contorno meno sfocato, ciò non varrebbe a «colmare l'eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale»” (§ 11). A corroborare l’assunto, ritenuto “persino intuitivo”, che “che la persona, prendendo contezza dell'art. 325 TFUE, non potesse (e neppure possa oggi in base a quel solo testo) immaginare che da esso sarebbe stata estrapolata la regola che impone di disapplicare un particolare aspetto del regime legale della prescrizione, in presenza di condizioni del tutto peculiari” (§ 12), si menziona – con un’apprezzabile e non frequente apertura al dialogo non solo tra Corti ma anche con la letteratura – la “sorpresa manifestata dalla comunità dei giuristi nel vasto dibattito dottrinale seguito alla sentenza Taricco, pur nelle sfumature delle diverse posizioni” (§ 12). Puntualizzato che seppure “è vero che anche «la più certa delle leggi ha bisogno di ‘letture’ ed interpretazioni sistematiche»” e che queste ultime “non possono surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire alle persone «la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d'azione»”, si ritiene “che una scelta relativa alla punibilità deve essere autonomamente ricavabile dal testo legislativo al quale i consociati hanno accesso, diversamente da quanto accade con la «regola Taricco»". Il corollario che se ne trae è che, “fermo restando che compete alla sola Corte di Giustizia interpretare con uniformità il diritto dell'Unione, e specificare se esso abbia effetto diretto”, appare fuori discussione che, come riconosciuto dai giudici europei in Taricco II, “un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento” (§ 12).

Nella parte conclusiva della pronuncia, un utile chiarimento è offerto anche in merito al perimetro applicativo del principio di assimilazione, desumibile dal secondo paragrafo dell’art. 325 TFUE, che non assume – nella vicenda in esame - i requisiti di “una base legale sufficientemente determinata” (§ 13). In altri termini, “qualora si reputasse possibile da parte del giudice penale il confronto tra frodi fiscali in danno dello Stato e frodi fiscali in danno dell'Unione, al fine di impedire che le seconde abbiamo un trattamento meno severo delle prime quanto al termine di prescrizione, ugualmente l'art. 325, paragrafo 2, TFUE non perderebbe il suo tratto non adeguatamente determinato per fungere da base legale di tale operazione in materia penale, posto che i consociati non avrebbero potuto, né oggi potrebbero sulla base del solo quadro normativo, raffigurarsi tale effetto”. Allo stesso modo, si aggiunge, “una sufficiente determinazione non sarebbe rintracciabile neppure nell'enunciato della sentenza Taricco, relativo ai «casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato», per i quali sono stabiliti «termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell'Unione»”, trattandosi di “un enunciato generico, che, comportando un apprezzamento largamente opinabile, non è tale da soddisfare il principio di determinatezza della legge penale e in particolare da assicurare ai consociati una sua sicura percezione” (§ 13).

La conclusione, coerente e prevedibilmente tranchant,  è che “l'inapplicabilità della «regola Taricco», secondo quanto riconosciuto dalla sentenza M.A.S., ha la propria fonte non solo nella Costituzione repubblicana, ma nello stesso diritto dell'Unione, sicché ha trovato conferma l'ipotesi tracciata (…) con l'ordinanza n. 24 del 2017, ovvero che non vi sia alcuna ragione di contrasto”; sul piano processuale, ciò conduce alla “non fondatezza di tutte le questioni sollevate, perché, a prescindere dagli ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti, la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all'ingresso della «regola Taricco» nel nostro ordinamento” (§ 14).

 

3. Gli scenari.

Le ferme parole della Corte non solo hanno chiuso il caso Taricco, ma – come si è detto in apertura – hanno aperto scenari nuovi e incoraggianti sul versante della legalità penale, nella duplice prospettiva dei rapporti tra ordinamento interno e sovranazionale e tra potere legislativo e giudiziario.

 

3.1. La posta in gioco.

Riprendendo e sviluppando i ‘punti fermi’ fissati nell’ordinanza 24 del 2017, i giudici costituzionali – oltre a ribadire la prevalenza del diritto penale scritto di produzione legislativa (sulla scia della sentenza n. 230 del 2012) – hanno individuato il punto di confine del rapporto fra diritto penale e diritto europeo nell’inderogabilità dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, a partire dalla necessaria base legislativa, certa e sufficientemente determinata, a copertura di scelte politico-criminali che, come nel caso della prescrizione, finiscono per incidere sulla punibilità della persona e rientrano pertanto nel novero applicativo dell’art. 25, co. 2 Cost.

Ciò, a ben vedere, appare coerente con il vero oggetto del contendere nel caso Taricco: non la prescrizione, il suo regime giuridico o la disciplina dei relativi atti interruttivi, quanto piuttosto, da un lato e al di là dell’impopolarità dell’istituto e della scarsa condivisibilità dell’attuale ordito normativo, il diritto sotteso, primario e fondamentale, a non essere sottoposti per un tempo indeterminato o sproporzionatamente lungo a procedimento penale, con tutte le conseguenze che ciò comporta o può comportare sul bene della vita per ciascun individuo; dall’altro, e soprattutto, la salvaguardia del ruolo fondante della legge scritta nelle scelte di politica criminale e nell’individuazione dei mezzi (e dei conseguenti limiti) del potere giudiziario nel raggiungimento degli scopi predefiniti normativamente, da contrapporre all’idea di un ‘giudice di scopo’.

La posta in gioco era, in sostanza, il rapporto tra potere legislativo e giudiziario e, in termini ancora più generali, la stessa esigenza di certezza del diritto (proiettata nella dimensione della determinatezza e irretroattività della norma penale), se è vero, come scolpito nell’ordinanza n. 24, che “non si può permettere al potere giudiziario di disfarsi, in linea potenziale, di qualsivoglia elemento normativo che attiene alla punibilità o al processo, purché esso sia ritenuto di ostacolo alla repressione del reato”, perché altrimenti si eccederebbe “il limite proprio della funzione giurisdizionale nello Stato di diritto quanto meno nella tradizione continentale” (§. 9).

 

3.2. La vittoria della strategia diplomatica e le prospettive future: verso un diritto penale, nazionale ed europeo, più certo?

Va certamente riconosciuto come, nel confronto/scontro fra Corte di Giustizia e Corte costituzionale, abbia premiato, in termini di risultato finale, la ‘strategia diplomatica’ intrapresa nell’ordinanza n. 24 del 2017, concretizzatasi nella scelta di attivare un ulteriore rinvio pregiudiziale (suggerendo alla Corte di Giustizia, attraverso il richiamo ai paragrafi 53 e 55 della sentenza Taricco I, una onorevole via d’uscita, prontamente percorsa), pur a fronte di una motivazione ferma nel sostenere la natura sostanziale della prescrizione e l’importanza della legalità in materia penale quale “principio supremo dell’ordinamento”. In tale prospettiva, è risultato altrettanto proficuo avere messo da parte il profilo più ‘divisivo’ nella dimensione della legalità sovranazionale – quello della riserva di legge – privilegiando quello della determinatezza (declinato in termini di certezza del diritto e soprattutto di prevedibilità), più vicino alla concezione sovranazionale e convenzionale di legalità penale e non a caso valorizzato dai giudici europei al § 51 della pronuncia Taricco II, ove è stata ribadita la significatività, anche in proiezione sovranazionale, del nucleo duro del principio di legalità (sub specie prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile), ricollegandolo agli artt. 49 e 51 della Carta, alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e all’art. 7, par. 1 CEDU).

Le modalità con le quali è stato chiuso il caso - superando il riferimento meramente temporale (relativo ai fatti commessi prima dell’8 settembre 2015, in ossequio del divieto di retroattività della legge più sfavorevole) e approfondendo, una volta per tutte, la consonanza con le ulteriori articolazioni del principio di legalità (anche riguardo al secondo paragrafo dell’art. 325 TFUE, sul quale in passato meno ci si era soffermati) – hanno non solo cristallizzato l’incompatibilità fra qualsivoglia disapplicazione in malam partem di una norma di diritto penale sostanziale e il principio di legalità penale, scongiurando il pericolo di soluzioni disomogenee da parte dei giudici comuni, ma hanno rappresentato pure una forte rivendicazione – in aperta continuità con il percorso intrapreso con la sentenza costituzionale n. 269 del 2017 – della esclusiva competenza della Corte nell’accertare il potenziale contrasto fra il diritto europeo, i principi supremi dell’ordine costituzionale e i diritti inalienabili della persona (§ 8), accompagnata dall’inevitabile ridimensionamento del ruolo riconosciuto sul punto ai giudici comuni (interlocutori privilegiati delle Corti sovranazionali), chiamati unicamente a interpellare il giudice costituzionale, sollevando se del caso il dubbio sulla legittimità della normativa nazionale che dà ingresso alla norma europea generatrice del preteso contrasto.

In definitiva, si può azzardare la conclusione che il risultato ottenuto sia sostanzialmente identico a quello che si sarebbe potuto conseguire seguendo la strada della diretta attivazione dei controlimiti, dei quali si può ritenere vi sia stato un esercizio indiretto, o meglio ne sia stata integrata una diversa modalità procedurale di attivazione attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale; il che, inevitabilmente, porrà all’attenzione della dottrina l’esigenza di valutare i possibili rischi connessi allo stravolgimento della funzione originaria di tale istituto.

A ciò va aggiunto come, da un lato, la ferma opposizione della Corte costituzionale a un diritto penale sovranazionale di matrice giurisprudenziale, incerto e imprevedibile, non corrisponda a un’aprioristica chiusura a un diritto penale europeo, potendosi al contrario scorgere tra le righe della sentenza n. 115 del 2018 (e prima ancora dell’ordinanza n. 24 del 2017) il nuovo inizio di un percorso di consacrazione a livello comunitario delle garanzie democratiche tipiche della materia penale, a partire dall’esigenza di una base legislativa, anche europea, ‘determinata’ e prevedibile. Dall’altro lato, ottimisticamente, si può (e forse si deve) leggere nelle parole della Corte, tanto nette quanto inequivoche, pure una sorta di auto-monito, al quale ricollegare positive ricadute, pro futuro, in termini di maggiore rigore nel sindacato sulla sufficiente determinatezza anche delle norme penali interne, nella prospettiva, meritoriamente enfatizzata, di vagliare che siano prodotte regole non solo adeguatamente definite a priori per essere applicate da parte del giudice ma anche davvero idonee ad assicurare a ciascuno una percezione chiara e immediata dei risvolti penalistici della propria condotta.