Sanzioni disciplinari penitenziarie e legittimità convenzionale del doppio binario sanzionatorio

Sommario: 1. La natura giuridica delle sanzioni disciplinari previste dall’ordinamento penitenziario: introduzione. – 2) La presa di posizione della Suprema Corte. – 3. Ulteriori interventi della giurisprudenza di legittimità: Cass. pen., Sez. II, 16 febbraio 2018, n. 23043. – 4. Considerazioni conclusive.

1) La natura giuridica delle sanzioni disciplinari previste dall’ordinamento penitenziario: introduzione.

La giurisprudenza di legittimità ha recentemente intrapreso una approfondita riflessione relativa alla natura giuridica delle sanzioni previste dall’ordinamento penitenziario, risolta dai giudici della Suprema Corte declinando sul piano interno le linee interpretative elaborate a livello sovranazionale dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo[1].

La vita all’interno degli istituti penitenziari è regolata da una serie di norme comportamentali enucleate dal d.P.R. n. 230/2000 e tali da garantire il corretto e pacifico svolgimento della stessa, preservando la funzione risocializzante della pena. La violazione da parte del detenuto di tale norme, ove configuri una delle infrazioni previste dall’art. 77 d.P.R. cit., determina l’apertura di apposito procedimento disciplinare, che può sfociare nell’irrogazione di una sanzione disciplinare, la cui definizione e regolamentazione si rinviene negli artt. 36 ss., L. n. 354/1975.

A tal riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che il comma 1, n. 16) del predetto art. 77 svolge una complessa funzione di norma disciplinare in bianco (affine a quella svolta in ambito penale dall’art. 650 c.p.) posto che eleva a presupposto della sanzione disciplinare qualunque inosservanza di ordini o prescrizioni (o l’ingiustificato ritardo), demandando alla Magistratura di sorveglianza il compito di verificare l’esistenza di apposito ordine o prescrizione che si assume violata, con contestuale obbligo per l’amministrazione di renderne accessibile la fonte[2].

Partendo da tale impianto normativo, la Corte di Cassazione ha indagato più volte il tema della natura giuridica da riconoscere alle sanzioni penitenziarie, denso di implicazioni quanto al profilo applicativo.

Carattere fondamentale di ogni pena è indubbiamente quello dell’afflittività, espressione che indica, in linea generale, la sofferenza che viene inflitta a colui che ha violato un comando. Ma il carattere ora indicato è proprio di tutti i castighi, anche di quelli inflitti in ambito familiare o in ambito associazionistico[3].

Pertanto, onde delimitare il campo delle “sanzioni penali”, è necessario porre in evidenza che due ulteriori caratteristiche contraddistinguono le stesse rispetto alle altre sanzioni di matrice pubblica: una concerne l’organo che le applica; l’altra il modo in cui vengono applicate. L’organo è l’Autorità Giudiziaria e l’irrogazione avviene con le garanzie e con le forme del procedimento penale[4]. Da ciò consegue anche l’intrasmissibilità della pena, naturale precipitato del principio di personalità della responsabilità penale, e l’irrevocabilità della stessa, posto che essa può essere revocata solo dalla legge, o per abrogazione o per clemenza[5].

Nel contempo, nella ricostruzione della fisionomia aggiornata della pena occorre fare i conti con il comma 3 dell’art. 27 Cost.[6], che individua quale finalità primaria della stessa la rieducazione del condannato, nel significato di recupero sociale o risocializzazione[7].

In un contesto siffatto si inserisce la genesi della “concezione autonomista della pena”, partorita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel tentativo di delineare una nozione universale di sanzione penale destinata ad accomunare culturalmente i paesi dell’area europea entro un medesimo sistema di garanzie, che rinviene il suo baricentro nell’art. 7 CEDU[8]. E proprio tale concezione, fondata sull’elaborazione di una serie di criteri funzionali ad individuare la natura sostanzialmente penale di una sanzione prevista dal diritto interno di uno degli Stati membri (cd. Engel criteria[9]), la Corte di Cassazione è chiamata a declinare nel peculiare campo delle sanzioni penitenziarie.

 

2) La presa di posizione della Suprema Corte.

Un primo intervento della Suprema Corte[10] veniva stimolato con ricorso ex art. 569 c.p.p. dal Procuratore Generale di Ancona, che impugnava la sentenza con la quale il Tribunale di Ascoli Piceno in composizione monocratica dichiarava non doversi procedere nei confronti di un imputato detenuto in carcere per ne bis in idem, in riferimento al reato di danneggiamento aggravato allo stesso contestato per aver rotto una finestra della Casa circondariale ove era detenuto; e ciò in quanto il predetto detenuto, per il medesimo fatto, aveva già subito un procedimento disciplinare ad esito del quale gli era stata irrogata la sanzione dell’esclusione dall’attività comune.

Dopo una premessa introduttiva circa la portata del principio del ne bis in idem, la Suprema Corte richiama e ricostruisce i criteri adoperati dalla Corte EDU per la perimetrazione giuridica dell’area delle sanzioni penali, che, riprendendo gli storici caratteri definitori della sanzione penale, si incasellano in quattro grandi categorie: a) qualificazione prevalente della sanzione negli Stati contraenti; b) natura penale dell’infrazione cui consegue l’applicazione della sanzione; c) natura punitiva ed afflittività della sanzione; d) applicazione della stessa ad esito di un processo penale.

Sono numerose le “pene camuffate” disvelate dalla giurisprudenza europea attraverso l’applicazione di tali criteri. Tanto è avvenuto, volendo richiamare gli esempi più rilevanti, in riferimento alla cd. “confisca urbanistica”, di cui all’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380/2001[11]; nonché in riferimento agli illeciti amministrativi previsti, per i casi di market abuse, dagli artt. 187-bis e 187-ter. D.Lgs. n. 58/1998[12].

Ciò posto, si ribadisce che il giudice nazionale, nell’interpretazione delle norme interne, è vincolato dai soli orientamenti consolidati della Corte di Strasburgo[13]; ed altresì che il divieto di bis in idem sancito dall’art. 4, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, nell’interpretazione della consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ha natura processuale, non sostanziale, poiché consente l’applicazione, per lo “stesso fatto”, di più sanzioni qualificate come penali alla stregua dei criteri Engel, purché ciò avvenga all’esito del medesimo procedimento, ovvero di procedimenti legati da un nesso sostanziale e temporale “sufficientemente stretto”[14].

Sostanzialmente, tale decisione della Grande Camera ha significativamente ridimensionato la portata sovranazionale del principio del ne bis in idem, affidando al giudice nazionale il non facile compito di stabilire, volta per volta, se i procedimenti in questione presentino l’ulteriore requisito di un nesso materiale e temporale sufficientemente stretto, tale da legittimare il doppio binario sanzionatorio in conformità con gli standard di tutela interni dei singoli ordinamenti, purché ciò non infici il livello di protezione assicurato  dalla Convenzione EDU[15].

Ciò premesso quanto alle coordinate ermeneutiche di cui fare applicazione, la Corte affronta il tema della natura giuridica delle sanzioni oggetto di esame.

I giudici di nomofilachia rappresentano che la Grande Chambre della Corte EDU[16], ai fini dell’attribuzione della natura sostanzialmente penale ad una sanzione formalmente non penale, ha valorizzato l’elemento per cui la sanzione risulta diretta alla generalità dei consociati. L’applicazione di tale criterio al caso di specie esclude quindi radicalmente la possibilità di attribuire natura penale alle sanzioni disciplinari oggetto di esame, efficaci soltanto in riferimento ai cittadini detenuti negli istituti penitenziari; invero, tale circostanza, nell’ottica della Corte, va ad incidere negativamente sulla configurazione del requisito della “marcata afflittività” della sanzione de quo, neutralizzato dal ristretto campo di azione della stessa, ed altresì dalla sua concreta configurazione: la sanzione dell’esclusione dall’attività in comune può avere una durata massima di giorni quindici e può essere in concreto applicata solo se il detenuto sia fisicamente e psicologicamente in grado di sopportarla, dovendosi quindi sottoporre lo stesso ad un controllo sanitario continuativo.

A ciò può inoltre aggiungersi la considerazione, formulata dalla giurisprudenza interna, per cui la diversità ontologica della sanzione disciplinare da quella penale è rivelata anche dall’applicabilità a quest’ultima degli istituti dell’amnistia (art. 151 c.p., comma 1) e della riabilitazione (art. 178 c.p.), non operanti in riferimento alla sanzione disciplinare, che esprime quindi una dimensione afflittiva specifica e peculiare[17].

Peraltro, non può omettersi di rilevare che, anche volendo superare tali diversità ontologiche, il giudice a quo avrebbe comunque dovuto sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, assumendo, quale norma interposta, quella di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, non essendo legittimato a disapplicare direttamente la richiamata disposizione interna, “poiché in tal modo egli spoglierebbe la Corte costituzionale delle sue esclusive prerogative quanto alla valutazione dell’eventuale conflitto tra la predetta norma convenzionale ed altre norme conferenti della nostra Costituzione”.

Alla stregua delle suesposte considerazioni, la Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Ancona per lo svolgimento del giudizio, formulando il seguente principio di diritto: “Non è configurabile il divieto di bis in idem nel caso di soggetto detenuto, già sanzionato disciplinarmente D.P.R. n. 230 del 2000, ex art. 81, comma 2, successivamente chiamato a rispondere per lo stesso fatto del reato di cui all’art. 635 c.p. (…)”.

Occorre osservare che la sentenza in esame si pone in distonia rispetto ad un precedente arresto della Corte di Cassazione[18], con il quale si attribuiva natura sostanzialmente penale alla sanzione disciplinare dell’isolamento diurno, qualificando la stessa in termini di “punizione di significativa gravità”, tale da rendere “la detenzione particolarmente afflittiva, al punto che per applicare la sanzione è necessaria una autorizzazione del medico”. Tuttavia, si escludeva comunque la violazione del principio del ne bis in idem ritenendo sussistere tra i due procedimenti (penale e disciplinare) una contiguità temporale tale da ritenere esaudita la verifica dello stretto legame temporale richiesta dalla Corte europea ai fini della legittimità convenzionale del doppio binario sanzionatorio, pervenendo sostanzialmente al medesimo risultato finale.

A ben vedere, risulta preferibile l’indirizzo interpretativo sposato dalla pronuncia successiva in quanto trasla sul piano interno il consolidato orientamento della giurisprudenza europea, ferma nel sostenere la natura non penale delle sanzioni disciplinari tenuto conto del ristretto campo di operatività delle stesse; peraltro, optando per tale ricostruzione, la Corte di Cassazione evita di impelagarsi nella complessa ed opinabile applicazione del criterio dello “stretto legame temporale”, elaborato attraverso la summenzionata sentenza relativa al caso A e B c. Norvegia[19].

Invero, l’orientamento dei giudici di Strasburgo, seppur animato dalla condivisibile volontà di lasciare agli Stati contraenti una certa discrezionalità nel decidere come garantire nei rispettivi ordinamenti il diritto al ne bis in idem, finisce per elaborare un criterio piuttosto vago ed arbitrario, costruito attorno ad indicatori ampiamente manipolabili dall’interprete e tale da innescare il rischio di costruzione strategica di procedimenti connessi funzionali a raggiungere il massimo effetto repressivo possibile[20], a tutto danno delle garanzie individuali[21].

A tal riguardo si è infatti espressa anche la Corte costituzionale[22], la quale ha specificamente individuato la ratio di tale orientamento, reputando lo stesso funzionale a “trovare un giusto contemperamento di interessi tra le esigenze repressive dello Stato nazionale verso fatti illeciti di notevole disvalore sociale e le garanzie individuali”. Ma ha anche osservato che l’applicazione dello stesso richiede al giudice di merito, in mancanza di un chiaro riferimento normativo, “l’esercizio di compiti interpretativi molto complessi ed articolati, che non possono prescindere da una attenta valutazione dei singoli casi concreti”, circostanza che rende difficile l’elaborazione di una impostazione interpretativa connotata da solidità e certezza[23].

Da ultimo, la pronuncia della Corte di Cassazione si lascia apprezzare anche nella misura in cui si pone in linea con l’orientamento della dottrina più avvertita, attenta nel rimarcare l’eterogeneità teleologica degli illeciti disciplinari rispetto agli illeciti penali e nel valorizzare la circostanza che le norme precettive disciplinari sono poste a tutela di interessi particolari, interni all’organizzazione penitenziaria, mentre quelle penali sono poste a tutela di interessi della collettività. È conferma di ciò la circostanza che non tutti i fatti che integrano illecito disciplinare risultano penalmente rilevanti[24].

 

3) Ulteriori interventi della giurisprudenza di legittimità: Cass. pen., Sez. II, 16 febbraio 2018, n. 23043.

La seconda Sezione della Corte di Cassazione ha affrontato nuovamente la questione con la sentenza n. 23043/2018.

Ancora una volta oggetto di impugnazione è una sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno in composizione monocratica, con la quale si era dichiarato non doversi procedere nei confronti di un imputato detenuto in carcere per ne bis in idem, essendo già stata applicata allo stesso la sanzione disciplinare dell’esclusione dall’attività comune, ad esito di procedimento ex art. 81, comma 2, d.P.R. n. 230/2000.

La Suprema Corte approccia alla questione richiamando l’orientamento esposto all’interno del paragrafo precedente, in riferimento al quale manifesta piena condivisione, nonché riportando le già illustrate coordinate ermeneutiche tracciate dalla Corte Edu in riferimento al noto caso A e B c. Norvegia per delimitare l’ambito applicativo del principio del ne bis in idem.

Ciò premesso, ripercorrendo il tracciato interpretativo già delineato nella precedente pronuncia, perviene alla conclusione per cui la decisione impugnata deve considerarsi illegittima per due ordini di ragioni.

In primo luogo, il giudice nazionale deve considerarsi vincolato soltanto dagli orientamenti consolidati della Corte di Strasburgo, la quale, però, non ha mai affermato la sussistenza del divieto di bis in idem ex art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU in riferimento al rapporto tra separati procedimenti finalizzati all’irrogazione di sanzioni penali e disciplinari. Più precisamente, la giurisprudenza europea è giunta a riconoscere natura penale soltanto a quelle sanzioni disciplinari che – magari precludendo l’accesso alla libertà vigilata o la concessione di sconti di pena – comportano un allungamento dei termini di durata della detenzione[25].

Inoltre, pur a voler riconoscere natura sostanzialmente penale alle menzionate sanzioni disciplinari ed a voler ritenere operante il principio del ne bis in idem, il giudice a quo avrebbe dovuto sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost.

A sostegno di tale conclusione, la seconda Sezione richiama pedissequamente il percorso motivazionale già seguito dalla sentenza n. 43435/2017, in tal modo consolidando ulteriormente l’indirizzo da questa espresso[26] a scapito della meno convincente interpretazione elaborata con sentenza n. 9184/2016.

Ancor più di recente, la seconda Sezione si è pronunciata sulla questione con sentenza n. 15609 del 14 febbraio 2019, soffermandosi su alcuni ulteriori profili motivazionali.

Oggetto di ricorso per Cassazione ad opera del Procuratore Generale è la sentenza, emessa dal tribunale di L’Aquila in composizione monocratica, con la quale si dichiarava non doversi procedere nei confronti di un imputato detenuto in carcere per il reato di danneggiamento, per sussistenza di bis in idem costituito dalla sanzione disciplinare allo stesso irrogata dal consiglio disciplinare della struttura carceraria per i fatti commessi.

Tuttavia, le argomentazioni adoperate dalla Suprema Corte per denegare il riconoscimento della natura sostanzialmente penale alla sanzione irrogata al detenuto delineano un iter logico-argomentativo sensibilmente differente rispetto a quello seguito dalle due precedenti pronunce in materia.

Nel dettaglio, la seconda Sezione, ai fini della valutazione de quo, sembra ripristinare il “criterio quantitativo”, relegato in posizione ancillare dalla giurisprudenza europea a partire dalla decisione relativa al caso Ozturk c. Germania, valorizzando l’analisi della funzione (eminentemente punitiva e retributiva, seppur ammettendo contaminazioni general preventive e special preventive) perseguita dalla sanzione oggetto di esame[27].

I giudici di legittimità, infatti, escludono che alla misura disciplinare della temporanea esclusione dalle attività in comune possa riconoscersi natura similare alla pena prevista per il delitto di danneggiamento, stante l’elevato tasso di severità insito in quest’ultima, consistente nella reclusione da 6 mesi a 3 anni; piuttosto, la predetta sanzione disciplinare si risolve soltanto in una “particolare disciplina temporanea delle modalità del trattamento penitenziario, priva di afflittività penale”.

E ciò ulteriormente evidenziando che il giudizio ha ad oggetto l’aggressione realizzata dall’imputato a danno di beni pubblici collocati nella sua cella ed il danneggiamento degli stessi, con conseguente depauperamento del patrimonio dello Stato, “rispetto al quale alcun effetto ripristinatorio ha la sanzione disciplinare irrogata”.

Dunque, la Suprema Corte conclude il suo percorso interpretativo con un’affermazione che non può che destare qualche perplessità in quanto tale da introdurre un criterio sostanzialmente nuovo nel giudizio relativo alla natura penale delle sanzioni: da un lato sembra supportare la valorizzazione del profilo funzionale della sanzione; dall’altro, nel fare ciò, attribuisce rilevanza alla funzione “ripristinatoria” della sanzione quale significativo indizio di “penalità” della stessa, il cui mancato riscontro determina il confinamento della misura entro il perimetro del campo disciplinare.

Dispone quindi l’annullamento della sentenza impugnata, con trasmissione degli atti al tribunale di L'Aquila per la celebrazione di un nuovo giudizio.

 

4) Considerazioni conclusive.

Alla luce di tali considerazioni, appare certamente più convincente l’orientamento espresso dalle sentenze nn. 43435/2017 e 23043/2018, fondandosi esso su di una impostazione teorica che fa buon governo dei principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza europea a partire dalla sentenza relativa al caso Ozturk c. Germania e valorizza l’analisi teleologica dell’illecito sotteso all’applicazione della sanzione.

Deve infatti rammentarsi che al tempo dell’elaborazione degli Engel criteria aveva assunto un peso decisivo, ai fini della qualificazione giuridica della sanzione, il profilo della severità della stessa. Ma, così facendo la Corte rischiava, nella sua actio finium regundorum della materia penale, di rimanere agganciata ad un approccio quantitativo che celava un inevitabile margine di arbitrarietà, con esiti contradditori e scarsamente condivisibili[28]. Ne emergeva un quadro nel quale non era affatto chiaro quanto sufficientemente severe dovessero essere le sanzioni disciplinari affinché le garanzie penalistiche potessero essere applicate[29].

L’autentica svolta, nella giurisprudenza di Strasburgo, sembra doversi attribuire alla sentenza Öztürk[30], attraverso la quale, con una scelta di campo successivamente confermata[31], si è affermata la centralità della funzione della sanzione ai fini della qualificazione giuridica della stessa. Nel dettaglio, portando alla luce la fondamentale tripartizione tra conseguenze punitive, riparative e preventive della sanzione, si è puntualizzato che tutte le sanzioni hanno una portata più o meno “afflittiva” rispetto alla posizione del destinatario, ma soltanto in quelle autenticamente “punitive” tale effetto è voluto o necessario. Si è quindi giunti ad affermare che anche la compresenza di una finalità preventiva della sanzione non esclude il carattere penale della stessa, laddove tale funzione rimanga subordinata rispetto alle note autenticamente punitive[32]; e ciò proprio valorizzando il dato che la sanzione penale nella gran parte degli ordinamenti non serve affatto solo a perseguire un’astratta finalità di giustizia retributiva, ma persegue anche obiettivi di general prevenzione e special prevenzione[33].

Ciò posto, può osservarsi che le sanzioni previste dall’ordinamento penitenziario, più che al perseguimento di un’astratta finalità di giustizia retributiva, appaiono orientate verso obiettivi di natura preventiva e di carattere estremamente settoriale, nell’ottica di garantire l’efficace funzionamento degli istituti penitenziari ed il regolare svolgimento della vita carceraria. 

A conclusione analoga si perviene affiancando al vaglio della funzione dell’illecito anche l’analisi della funzione della sanzione in sé considerata. È vero che, come osservato da autorevole dottrina[34], le sanzioni disciplinari esercitano anche una rilevante funzione punitiva, oltre che una funzione general preventiva – quella di evitare l’assunzione di condotte indesiderate all’interno dell’istituto penitenziario – sotto diversi aspetti assimilabile a quella penale. Ma è altrettanto vero che tali finalità simil-penalistiche risultano di rilievo secondario rispetto all’obiettivo primario, strettamente connesso al limitato contesto operativo della sanzione stessa, di mantenere l’ordine all’interno dell’istituzione penitenziaria. E proprio la perimetrazione della cerchia di consociati cui la sanzione risulta destinata non può che sbiadire il carattere afflittivo della stessa, giustificando le conclusioni cui perviene la Suprema Corte.

Già tali considerazioni, unitamente al richiamo della consolidata giurisprudenza europea in materia, appaiono dirimenti nel consolidare l’orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità. Sicché non può che destare qualche perplessità, per le ragioni sopra menzionate, il riferimento cursorio al criterio “quantitativo” – quale significativo indice di afflittività della sanzione – operato dalla sentenza n. 15609/2019. Sembra infatti sostanzialmente superflua la rievocazione quale indice primario – e non anche quale indice meramente sintomatico di “afflittività penale” – di un criterio già criticato per la sua evanescenza e conseguentemente tale da celare inevitabili margini di aleatorietà, non essendo chiaro quanto sufficientemente severe debbano essere le sanzioni disciplinari affinché le garanzie penalistiche possano essere applicate.

Così come appare scarsamente convincente la valorizzazione della finalità ripristinatoria della sanzione quale indice di penalità della stessa, conclusione tale da porsi in distonia con il consolidato orientamento della giurisprudenza europea, ferma nel rimarcare la necessaria centralità degli aspetti eminentemente punitivi.

Ciò posto, deve necessariamente concludersi questa indagine con una considerazione finale, che vuole costituire uno spunto di riflessione piuttosto che una conclusione assertiva.

Già si è posto in rilievo il dato per cui un consolidato indirizzo della Corte di Strasburgo[35] riconosce natura penale anche alle sanzioni disciplinari allorquando l’applicazione delle stesse determini un significativo allungamento dei tempi di restrizione della libertà personale, in tal caso acquisendo quel carattere di afflittività che traghetta le stesse nell’area coperta dalle garanzie penalistiche.

Partendo da tale presupposto autorevole dottrina[36] ha rilevato che un nesso di causalità tra comminazione di sanzioni disciplinari penitenziarie ed allungamento della detenzione – sotto forma di diniego della liberazione anticipata – ben può ravvisarsi anche nell’ordinamento penitenziario italiano.

Più precisamente, l’art. 54 della L. n. 354/1975 subordina la detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata alla partecipazione del condannato all’“opera di rieducazione”. Tanto avviene con provvedimento del Magistrato di sorveglianza[37].

Orbene, la giurisprudenza maggioritaria esclude ogni automatismo tra l’applicazione delle sanzioni disciplinari e la negazione della liberazione anticipata; ciò nondimeno, puntualizza che il Magistrato di sorveglianza può trarre utili elementi di valutazione da tale circostanza, in specie ove si tratti di sanzioni di “apprezzabile rilevanza[38].

Dunque, se da un lato l’applicazione di sanzioni disciplinari non comporta quale effetto diretto l’allungamento dei tempi di detenzione, certamente può acquisire un rilievo quantomeno indiretto nella determinazione dello stesso, influenzando la valutazione dell’Autorità Giudiziaria; valutazione calibrata sul caso concreto e certamente non atomistica, bensì fondata su di un apprezzamento complessivo di tutti gli aspetti che connotano il trattamento penitenziario del condannato, da intendersi come un unicum globalmente diretto al reinserimento nella società dello stesso.

E non vi è dubbio che, ove tale elemento acquisisca rilievo nella valutazione del Magistrato di sorveglianza, l’effetto della sanzione disciplinare sarà quello di incidere non solo sul quomodo ma anche sul quantum della pena oggetto di esecuzione.

Ma vi è anche da considerare che tale circostanza non implica l’automatico riconoscimento della natura penale della sanzione. L’orientamento espresso dalla giurisprudenza europea deve necessariamente confrontarsi con le peculiarità dell’ordinamento penitenziario italiano e non può che attendersi una presa di posizione sul punto della giurisprudenza di legittimità, chiamata a verificare se possa riconoscersi carattere di “afflittività penale” ad una limitazione della libertà personale (peraltro meramente eventuale) della durata di 45 giorni, oltre che ad indagare la funzione sottesa ad una siffatta disciplina, onde rintracciare in essa eventuali tratti di “penalità”.

Infine, l’operato della giurisprudenza interna solleva qualche profilo di opinabilità nella parte in cui sembra subordinare il riconoscimento della natura penale, da parte del giudice a quo, alla stratificazione di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea sul punto.

Difatti, tale affermazione deve oggi fare i conti con l’indirizzo interpretativo della Corte costituzionale[39] in virtù del quale l’assenza di precedenti specifici nella giurisprudenza di Strasburgo non impedisce al giudice nazionale di “sviluppare coerentemente nell’ordinamento interno i principi fondamentali della Cedu”, facendo applicazione degli stessi anche in riferimento ad istituti che non siano stati attenzionati dalla giurisprudenza europea, stante la portata generale di tali principi, destinati a vivere anche e soprattutto nella dimensione interpretativa offerta loro dalle Autorità giudiziarie degli Stati contraenti[40].

 

[1] Parallelamente, Cass. civ., Sez. lav., 26 ottobre 2017, n. 25485 si è occupata della natura giuridica delle sanzioni inflitte al lavoratore ad esito di procedimento disciplinare ex art. 55 bis D.Lgs. n. 165/2001; per un approfondimento a tal riguardo, S. Apa, Sanzioni disciplinari e corte edu: rapporto tra procedimento disciplinare e penale e limiti applicativi del ne bis in idem, in Il Giuslavorista, 3, 2018.

[2] Cass. pen., Sez. I, 12 ottobre 2017, n. 11308.

[3] F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, II ed., Milano, 1949, 365 – 366; cfr., per una ricostruzione più ampia della questione, A. Rocco, La pena e le altre sanzioni giuridiche, in Opere giuridiche, Roma, 1933.

[4] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., ove si sottolinea che già ad inizio secolo il legislatore contemplava la possibilità di “pene criminali” irrogate da un’Autorità amministrativa, citando a titolo esemplificativo le sanzioni irrogate dall’Intendenza di Finanza in base alla L. n. 4/1929.

[5] R. Pannain, Manuale di diritto penale. Parte generale, Torino, 1950, 676.

[6] A tenore del quale, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

[7] Per un approfondimento a tal riguardo, S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, 103 ss.; cfr. C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Milano, 2008, 587 – 591.

[8] Detta disposizione recita: “1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”.

[9] E ciò in quanto la primigenia elaborazione degli stessi risulta riconducibile alla storica sentenza Engel c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976; tali criteri sono stati poi ripresi in numerosi arresti giurisprudenziali successivi; cfr. Corte Edu, 21 febbraio 1984, Ozturk c. Germania, Corte Edu, 28 novembre 1999, Escoubet c. Belgio; Corte Edu, 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia.

[10] Cass. pen., Sez. II, 20 giugno 2017, n. 43435.

[11] Cfr. Corte Edu, 30 agosto 2007, Sud Fondi s.r.l. c. Italia; Corte Edu, 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. e altre c. Italia; Corte EDU, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia. Cfr. M. Pascotto, Confisca e prescrizione del reato di lottizzazione abusiva: i soliti nodi giurisprudenziali e i pericoli per la presunzione di innocenza, in Dir. pen. proc., 6, 2018, 785 ss.; per un punto di vista anteriore al consolidamento del summenzionato orientamento della giurisprudenza europea, F. M. Ferrari, Rilevanza penale delle lottizzazioni eseguite in aree sottoposte a vincoli paesaggistico-ambientali, in Urbanistica e appalti, 3, 2000, 321.

[12] Cfr. Corte Edu, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia; per una visione più ampia, A. Giovannini, Il ne bis in idem per la corte Edu e il sistema sanzionatorio tributario domestico, in Rass. trib., 5, 2014, 1155 ss.; M. Scoletta, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem nella nuova disciplina eurounitaria degli abusi di mercato, in Società, 2, 2016, 218 ss.

[13] Sotto tale profilo richiamando l’approdo interpretativo cui è pervenuta la Corte costituzionale con sentenza n. 49 del 26 marzo 2015, che non può essere oggetto di approfondimento nell’ambito della presente trattazione.

[14] Corte EDU, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia.

[15] F. Mucciarelli, Illecito penale, illecito amministrativo e ne bis in idem: la corte di cassazione e i criteri di stretta connessione e di proporzionalità, in www.penalecontemporaneo.it, 17 ottobre 2018. L’Autore richiama i criteri che i Giudici nazionali dovranno prendere in considerazione nel verificare la sussistenza del nesso: “a) del perseguimento, da parte dei procedimenti sanzionatori, di scopi differenti e del loro tenere conto di profili diversi della medesima condotta antisociale; b) della "prevedibilità" del doppio giudizio; c) della conduzione dei procedimenti in modo da evitare, per quanto possibile, la duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova; d) della “proporzione complessiva” della pena; e) dell'appartenenza delle fattispecie in oggetto al “nucleo duro” del diritto penale e, dunque, caratterizzate da forme accentuate di stigma sociale; sotto il profilo temporale: f) della presenza di un collegamento di natura cronologica fra i procedimenti, che devono essere sufficientemente vicini nel senso di non protrarsi eccessivamente nel tempo, affinché la persona sottoposta alla giustizia non lo sia per un periodo irragionevolmente prolungato”. Per un approfondimento relativo al nuovo volto del bis in idem europeo dopo la menzionata sentenza relativa al caso A e B c. Norvegia, N. Madia, Ne bis in idem europeo: la definitiva emersione della sua efficacia anche sostanziale in materia di pluralità di sanzioni e proporzionalità della pena, in Cass. pen., 2, 2019, 662 ss. Per un punto di vista precedente al recente depotenziamento del bis in idem europeo, D. Del Vescovo, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della corte di giustizia europea, in Dir. pen. proc., 11, 2009, 1413 ss.

[16] Corte EDU, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin c. Russia; cfr. Corte EDU, 21 febbraio 1984, Ozturk c. Germania.

[17] Cass. civ., Sez. Un., 29 febbraio 2016, n. 4004. Valga notare che, sul versante penale, Cass. pen., Sez. III, 23 marzo 2015, n. 36350 ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., sollevata per violazione degli artt. 24 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, nella parte in cui non prevede l’applicazione del divieto di bis in idem anche quando, dopo un procedimento disciplinare davanti agli organi della giustizia sportiva conclusosi con l’applicazione di una sanzione, faccia seguito per lo stesso fatto l’attivazione di un procedimento penale in senso stretto; e ciò sul rilievo che la sanzione disciplinare inflitta dagli organi della giustizia sportiva non ha nemmeno natura amministrativa, in quanto non esercita alcuna efficacia al di fuori dell’ordinamento di settore.

[18] Cass. pen., Sez. II, 15 dicembre 2016, n. 9184.

[19] Tale è la condivisibile opinione espressa da P. Fimiani, Ne bis in idem tra sanzioni disciplinari penitenziarie e danneggiamento, in Il Penalista, 11, 2017, il quale rileva come i margini applicativi di tale orientamento giurisprudenziale siano particolarmente elastici, in assenza di un punto di riferimento normativo.

[20] Per un approfondimento sul punto, F. Viganò, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in www.penalecontemporaneo.com, 18 novembre 2016. L’Autore analizza approfonditamente l’unica opinione dissenziente firmata dal giudice Paulo Pinto de Albuquerque, componente del Collegio che ha elaborato la decisione relativa al caso A e B c. Norvegia, il quale ha espresso una critica feroce avverso tale orientamento, evidenziandone l’efficacia destrutturante rispetto alla portata garantistica della sentenza della Corte Edu relativa al caso Zolotukhin c. Russia, del 10 febbraio 2009, in relazione all’idem factum, “attraverso una lettura inopinatamente restrittiva del bis”; cfr. M. Dova, Ne bis in idem e reati tributari: una questione ormai ineludibile, in www.penalecontemporaneo.com, 11 dicembre 2014.

[21] Cfr., sul punto, P. Moscarini, Il concetto europeo d’infrazione penale e la concorrenza tra i sistemi punitivi interni, in Dir. pen. proc., 3, 2016, 389 ss.

[22] Corte cost., 24 gennaio 2018, n. 43.

[23] F. Mucciarelli, Illecito penale, illecito amministrativo, cit., il quale acutamente pone in luce il “carattere asimmetrico del ne bis in idem eurounitario”, in virtù del quale qualora il processo penale si concluda per primo, stante il carattere particolarmente afflittivo delle sanzioni ad esito dello stesso potenzialmente irrogabili, costituirà uno sbarramento di fatto invalicabile per il procedimento amministrativo. Vi è infatti chi ha invocato una chiara presa di posizione normativa; cfr. F. Polegri, Il principio del ne bis in idem tra sanzioni amministrative e sanzioni penali - il principio del ne bis in ,idem al vaglio della corte costituzionale: un’occasione persa, in Giur. it., 7, 2016, 1711 ss., evidenziando come si sia espressa in tal senso anche Corte cost., 12 maggio 2016, n. 102; a tale ultimo riguardo, cfr. E. Bindi, Corte costituzionale e doppio binario sanzionatorio (riflessioni a margine della sent. n. 102 del 2016) – il commento –, in Società, 10, 2016, 1125 ss.

[24] Aa.Vv., Ordinamento penitenziario commentato, 2015, 432; G. Melchiorre Napoli, Infrazioni, sanzioni e procedimento disciplinare in ambito carcerario: spunti per una analisi (e per un intervento di riforma) alla luce del principio di proporzionalità, Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2016, 186; E. D’Alterio, Il sistema amministrativo penitenziario, in Riv. trim. dir. pubbl., 2, 2013, 369 ss.

[25] Corte Edu, 28 giugno 1984, Campbell e Fell c. Regno Unito; Corte Edu, 9 ottobre 2003, Ezeh e Connors c. Regno Unito.

[26] Cfr. S. Beltrani, Cass. pen., sez. II, n. 23043/2018 - inoperatività divieto ne bis in idem sanzioni penali e sanzioni disciplinari, in www.unicost.eu.

[27] Già sub par. 2 si è rammentato che tale scelta di campo è stata confermata anche dalla successiva giurisprudenza europea; cfr. Corte EDU, 17 dicembre 2009, M. c. Germania; cfr. anche Corte Edu, 9 febbraio 1995, Welch c. Gran Bretagna.

[28] In tal senso, F. Mazzacuva, la materia penale e il “doppio binario” della corte europea: le garanzie al di là delle apparenze, in Riv. it. dir. proc. pen., 4, 2013, 1899 ss., il quale evidenzia che proprio a causa dell’arbitrarietà di tale criterio la stessa Corte Edu è pervenuta a soluzioni contradditorie, riconoscendo la natura di sanzioni penali alle ammende convertibili in misure custodiali nel caso Weber c. Svizzera, ma non anche nei casi Ravnsborg c. Svezia e Putz c. Austria, laddove sanzioni parimenti convertibili ovvero effettivamente convertite in arresto non erano state giudicate tali.

[29] C.E. Paliero, “Materia penale” e illecito amministrativo secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo: una questione “classica” a una svolta radicale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, 919 ss.

[30] Corte Edu, 21 febbraio 1984, Ozturk c. Germania.

[31] Cfr. Corte Edu, Grande Camera, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia; cfr., sul punto, F. Mazzacuva, la materia penale, cit., 1899 ss.

[32] Corte Edu, 17 dicembre 2009, M. c. Germania; cfr. anche Corte Edu, 9 febbraio 1995, Welch c. Gran Bretagna.

[33] Sul punto, cfr. E. Dolcini, La commisurazione della pena. La pena detentiva, Padova, 1979.

[34] E. Loi, N. Mazzacuva, Il sistema disciplinare nel nuovo ordinamento penitenziario, in F. Bricola (a cura di), Il carcere riformato, 1977, 89 ss.; M. Di Bitonto, Una singolare applicazione dell’art. 649 c.p.p., in Dir. pen. proc., 4, 2015, 444.

[35] Corte EDU, 17 dicembre 2009, M. c. Germania; cfr. anche Corte Edu, 9 febbraio 1995, Welch c. Gran Bretagna.

[36] C. Carino, Sanzioni disciplinari penitenziarie e sanzioni penali, tra matière pénale e ne bis in idem, in Cass. pen., 2, 2019, 709 ss.

[37] Per una riflessione sulla natura giuridica della liberazione anticipata, G. La Greca, La liberazione anticipata: misura alternativa o premiale?, in Dir. pen. proc., 12, 1996, 2540 ss.; P. Comucci, Dissensi sul computo del semestre ai fini della liberazione anticipata, in Dir. pen. proc., 5, 1996, 618 ss.

[38] Cass. pen., Sez. I, 12 luglio 2018, n. 2886; cfr. anche Cass. pen., Sez. I, 8 novembre 2007, n. 7117. Contra Cass. pen., Sez. I, 11 maggio 1995, n. 2888, che, esprimendo un orientamento minoritario, nega radicalmente la possibilità di beneficiare della liberazione anticipata per chi sia stato destinatario di sanzioni disciplinari o addirittura di mere ammonizioni.

[39] Corte Cost., 7 aprile 2017, n. 68; da ultimo, Corte Cost., 21 marzo 2019, n. 63 che, facendo applicazione di tale principio, giunge ad estendere l’operatività del principio della retroattività favorevole anche in riferimento al campo delle sanzioni amministrative.

[40] M. Scoletta, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative punitive: la svolta, finalmente, della corte costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 2 aprile 2019.