Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione affronta la complessa questione relativa alle concrete ricadute applicative nel nostro ordinamento della sentenza Contrada c. Italia, negando a Marcello Dell’Utri la possibilità di avvalersi dei principi di diritto da essa espressi per ottenere la revoca ex art. 673 c.p.p. della propria condanna. In questo modo, i giudici di legittimità interpretano restrittivamente la portata precettiva della sentenza europea in relazione ai c.d. “fratelli minori” del ricorrente vittorioso, e cioè a coloro che, pur non avendo essi stessi proposto ricorso a Strasburgo, assumono di aver subito la medesima violazione riscontrata dalla Corte europea. La vicenda qui all’esame sollecita ancora una volta gli interpreti a interrogarsi su quali siano i meccanismi processuali più idonei ad assicurare il rispetto dell’obbligo di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, gravante sullo Stato in forza dell’art. 46 CEDU; più in radice, però, invita a riflettere circa la reale necessità di un’estensione erga omnes della ratio decidendi della sentenza Contrada, anche alla luce di una sua lettura nel più ampio contesto della giurisprudenza di Strasburgo in materia di legalità penale.
Lo studio analizza concetto, sviluppo attuale ed eventi paradigmatici del diritto giurisprudenziale penale, in relazione ai temi della giurisprudenza-fonte, del precedente, e ai limiti costituzionali di riserva di legge, tassatività e divieto di analogia. La ricerca indaga la categoria dell’illecito interpretativo per violazione del principio d’irretroattività dei mutamenti (o dei prodotti) giurisprudenziali imprevedibili, ma legittimi. L’attenzione si concentra sui casi sottratti a tale principio (diritto-concretizzazione e individualizzante, ovvero analogia occulta) e a quelli che invece sono a esso sottoposti, nella diversa incidenza della disciplina dell’ignorantia legis e del ruolo nomofilattico delle Sezioni Unite e delle Corti supreme. Conclude lo scritto un aggiornamento ricostruttivo del rapporto tra prevedibilità del diritto e sillogismo giudiziale.
È un passaggio ormai in atto da molto tempo quello che nel campo del diritto penale vede corrispondere al declino della “legalità della legge” una crescente valorizzazione della “legalità effettuale”. Peraltro, se è vero che questo processo risulta accompagnato e anzi sostenuto dai numerosi “tradimenti” istituzionalmente perpetrati in danno del più tradizionale assetto della legalità penale, è pure innegabile che in questo “cambiamento di epoca”, per gli assiomi classici del diritto criminale, sembra accrescere di rilevanza la nota questione dei rapporti tra la legge ed il giudice. In questo contesto, emerge con forza l’esigenza di approntare strumenti idonei a consolidare le – nuove – garanzie offerte dalla legalità effettuale, facendo però attenzione anche a perseguire l’equilibrio tra legalità della legge e legalità effettuale ed a scongiurare i rischi di cortocircuito in sede applicativa.
Il tema dei rapporti tra diritto penale e processo riporta l’attenzione, sul piano della “genesi” del diritto penale, alla questione del rapporto tra formante legislativo e formante giurisprudenziale, e del ruolo del “diritto dei giudici” nel sistema delle fonti. L’Autore si interroga sulla compatibilità tra la garanzia della legalità penale, intesa tanto nel suo significato costituzionale, quanto in quello elaborato nell’ordinamento Cedu, e il c.d. diritto “a matrice giurisprudenziale”. A fronte della scelta della Corte europea di fondare il concetto di legalità penale su quello di prevedibilità e accessibilità del precetto, quale che ne sia la fonte (legislativa o giurisprudenziale), e alla luce della necessità di valorizzare l’aspetto funzionalisticostrutturale della garanzia – in base al quale la norma penale deve costituire una regola di condotta elaborata in un momento anteriore a quello di applicazione processuale – non pare che, nel nostro ordinamento, il diritto giurisprudenziale possa assicurare la realizzazione della garanzia della legalità penale. Semmai, la riscontrata assenza di meccanismi interni idonei ad arginare la fisiologica imprevedibilità del diritto giurisprudenziale, evidente nell’exemplum del caso Contrada, dovrebbe indurre, da un lato, a propugnare tuttora il rigoroso rispetto dell’art. 25 Cost., quindi anche dell’accezione della legalità come riserva di legge, tassativa e determinata; dall’altro, a sollecitare il legislatore ad intervenire, per ripristinare la legalità violata, in tutti quei casi in cui, come in quello relativo al concorso esterno in associazione di tipo mafioso, la fattispecie risulti il frutto di una vera e propria attività “costitutiva” della giurisprudenza.
Muovendo da alcune recenti pronunce delle Corti interna ed europea, l’Autrice evidenzia la problematicità del concetto di “prevedibilità dell’esito giudiziario” e della tendenza ad attribuire efficacia vincolante ai precedenti dei giudici europei. Sottolinea, per contro, l’esigenza di un approccio di tipo ermeneutico, volto ad esplicitare i presupposti assiologici e le conseguenze delle differenti opzioni interpretative.
Prendendo spunto da una recente sentenza della Corte di cassazione (Sez. II, 21 aprile 2015 n. 34147, Perego), che censura la sentenza della Corte EDU nel caso Contrada, l’Autrice disegna un possibile percorso di sviluppo dialogico e corale del diritto, risultante anche dall’incontro tra giudici nazionali e giudici sovranazionali.
La sentenza della Corte EDU sul caso Contrada, comunque la si valuti nel merito, addita esigenze di arricchimento del principio di legalità, che trovano fondamento non solo nella legalità europea, ma anche, nell’ordinamento italiano, nel principio di colpevolezza come definito nella sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale. L’idea di legalità/prevedibilità vincola l’ermeneutica giudiziaria alla ricerca di significati precettivi riconoscibili dai destinatari.