Con il presente contributo, l’autrice intende proporre una sintesi dello stato attuale della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia ambientale: prendendo le mosse dalla nozione di obblighi positivi di tutela si sono analizzati i principali orientamenti interpretativi con cui i giudici hanno esteso la portata del diritto alla vita previsto dall’art. 2 Cedu e del diritto alla riservatezza e alla vita privata di cui all’art. 8 Cedu, per affermare un diritto all’ambiente di matrice convenzionale. La tutela della vittima da reato ambientale offre degli spunti di riflessione interessanti, rispetto alle sue ricadute sul piano interno, in ragione della recente riforma e nella più ampia prospettiva di protezione della persona offesa nel processo penale, sensibilmente ad oggi più rafforzata.
L’istituto della partecipazione a distanza al dibattimento è stato introdotto in Italia nel 1998 con una norma “a tempo”, relegata nelle disposizioni di attuazione e poi stabilizzata, che ha conosciuto una progressiva espansione. La l. 23 giugno 2017, n. 103, ne stravolge la portata, trasformando di fatto in regola un’eccezione i cui riverberi sull’effettività del contraddittorio e sull’esercizio del diritto di difesa sono indiscutibili, non potendo essere la partecipazione “virtuale” equiparata a quella fisica dell’imputato. Da qui l’esigenza di riconsiderare le conclusioni a cui sono giunte la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo rispetto alla pregressa disciplina, anche per evitare il rischio che la partecipazione a distanza divenga in prospettiva la “normalità” nei dibattimenti che coinvolgono soggetti in vinculis, quale che sia il procedimento che ha originato lo status detentionis.
L’impiego del segreto di Stato nel processo penale e il pericolo di gravi attentati terroristici portano a indagare l’interpretazione che la Corte costituzionale ha fornito della l. n. 124 del 2007 nell’ambito della nota vicenda Abu Omar. Le soluzioni cui essa è pervenuta non hanno convinto chi, come la Corte EDU, ritiene che la tutela dei diritti dell’individuo proclamati «inviolabili» dalle carte costituzionali debba essere assicurata in ogni caso, specialmente laddove essi si rapportino a gravi forme di criminalità. Non è tollerabile, in altri termini, che le garanzie dell’individuo siano compresse proprio nel momento in cui di esse v’è maggiore necessità.
Il procedimento di estradizione, regolato tanto da apposite Convenzioni quanto dalle suppression conventions in materia di terrorismo, si rende talvolta inapplicabile in quanto incompatibile con gli obblighi di tutela dei diritti umani. Nel presente contributo ci si soffermerà sul divieto di estradizione nei casi in cui l’estradando rischi di subire, nel Paese richiedente, trattamenti inumani o degradanti, in violazione dell’articolo 3 CEDU.
Nel diritto dell’Unione Europea, le garanzie processuali assumono perlopiù la veste dei “principi”, i quali devono essere tradotti in “regole” da parte della giurisprudenza. Come apprestarne un’implementazione capace di assicurare risultati prevedibili ex ante e, soprattutto, di bilanciare in modo equilibrato i valori in gioco? L’art. 53 della Carta di Nizza risponde al quesito postulando un’equivalenza fra gli standard di tutela dei diritti fondamentali previsti dall‘Unione, dalla CEDU e dai sistemi nazionali. Una triangolazione che, però, non è agevole da svolgere, se si tiene conto delle antinomie che spesso gli standard in questione presentano. Nel presente lavoro si propongono alcune tecniche per realizzarla.
Pur rigettando la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 l. n. 689/1981, nella parte in cui non prevede in materia di sanzioni amministrative l'applicabilità del principio della retroattività della norma più favorevole sopravvenuta, la sentenza della Corte costituzionale, 20 luglio 2016, n. 193 pare cionondimeno porre le basi per il definitivo superamento di tale grave limite della citata l. n. 689/1981. Analizzata siffatta pronuncia e il contesto nel quale essa si iscrive, col presente contributo si cercherà di evidenziare per quali ragioni detta sentenza debba intendersi come un monito al legislatore, cui spetta ora rimarginare tale vulnus del nostro sistema sanzionatorio amministrativo.
L’introduzione presenta alcune forme di intersezione tra diritto penale e processo in prospettiva internazionale, europea e interna che sono approfondite negli articoli pubblicati a seguire in questo numero, i quali costituiscono gli atti del VI corso di formazione interdottorale di diritto e procedura penale “Giuliano Vassalli” per dottorandi e dottori di ricerca organizzato dall’Istituto superiore internazionale di scienze criminali (ISISC) a Noto nei giorni 18-20 settembre 2015.
Il tema dei rapporti tra diritto penale e processo riporta l’attenzione, sul piano della “genesi” del diritto penale, alla questione del rapporto tra formante legislativo e formante giurisprudenziale, e del ruolo del “diritto dei giudici” nel sistema delle fonti. L’Autore si interroga sulla compatibilità tra la garanzia della legalità penale, intesa tanto nel suo significato costituzionale, quanto in quello elaborato nell’ordinamento Cedu, e il c.d. diritto “a matrice giurisprudenziale”. A fronte della scelta della Corte europea di fondare il concetto di legalità penale su quello di prevedibilità e accessibilità del precetto, quale che ne sia la fonte (legislativa o giurisprudenziale), e alla luce della necessità di valorizzare l’aspetto funzionalisticostrutturale della garanzia – in base al quale la norma penale deve costituire una regola di condotta elaborata in un momento anteriore a quello di applicazione processuale – non pare che, nel nostro ordinamento, il diritto giurisprudenziale possa assicurare la realizzazione della garanzia della legalità penale. Semmai, la riscontrata assenza di meccanismi interni idonei ad arginare la fisiologica imprevedibilità del diritto giurisprudenziale, evidente nell’exemplum del caso Contrada, dovrebbe indurre, da un lato, a propugnare tuttora il rigoroso rispetto dell’art. 25 Cost., quindi anche dell’accezione della legalità come riserva di legge, tassativa e determinata; dall’altro, a sollecitare il legislatore ad intervenire, per ripristinare la legalità violata, in tutti quei casi in cui, come in quello relativo al concorso esterno in associazione di tipo mafioso, la fattispecie risulti il frutto di una vera e propria attività “costitutiva” della giurisprudenza.
Muovendo dalla constatazione della sostanziale ineffettività del sistema penale e dalla sua riconducibilità ad un’eccessiva proliferazione di norme incriminatrici, il presente contributo mira a dimostrare la necessità di validi criteri di politica criminale capaci di orientare e vincolare l’attività del legislatore. Data per scontata la feconda elaborazione dogmatica compiuta nei decenni scorsi con riguardo al principio di offensività, l’analisi si appunta, in particolare, sulla possibile integrazione di quest’ultimo principio con quelli “europei” di sussidiarietà e proporzionalità, al fine consentire valutazioni giudiziali sul merito delle incriminazioni alla luce di criteri assiologici sostenibili.
Con il presente lavoro, si intende proporre, seppur in estrema sintesi, un’analisi delle principali questioni che hanno interessato il recente dibattito circa il rapporto tra il principio di intangibilità del giudicato penale e la tutela dei diritti umani del detenuto, in ragione dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU. L’oggetto di indagine sarà, dunque, limitato alla relazione intercorrente tra il giudicato penale interno e l’incidenza dell’esecuzione della giurisprudenza sovranazionale.