Il progressivo recepimento nell’ordinamento interno della nozione di “pena” elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo non può che incidere anche sull’attuazione della riforma del sistema sanzionatorio delineata nella legge delega n. 67/2014. In particolare, nell’ottica di una diversificazione delle strategie sanzionatorie, attraverso una valorizzazione delle sanzioni amministrative e di quelle etichettate come “civili”, non pare comunque consentito un arretramento di determinate garanzie collegate al principio di colpevolezza, valevoli rispetto ad ogni manifestazione della potestà punitiva.
Il contributo si sofferma sul tema del c.d. “ergastolo ostativo” nella prospettiva di riforma del sistema sanzionatorio, con particolare riferimento al problema della sua compatibilità con la recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Le recenti pronunce delle Corti europee in tema di ne bis in idem, in particolare la sentenza Grande Stevens della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sembrano proporre una concezione sostanziale del canone ermeneutico della specialità, che impone di rivedere la prassi interpretativa interna relativa al principio di cui all’art. 9 della l. n. 689 del 24 novembre 1981, incentrata su un raffronto strutturale fra le fattispecie. Dietro queste differenze, riscontrabili nel piano interno e in quello europeo, si intravede la sottostante diversa dimensione della legalità penale. È proprio con tale diversità che si devono confrontare, oggi, gli operatori del diritto; in tema di specialità, ma non solo.
Il contributo verte sul versante transnazionale del principio del ne bis in idem, andando ad analizzare la recente giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e, in particolare, la sentenza nel caso Spasic. Al centro dell’indagine è il rapporto tra la condizione di esecuzione di cui all’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen e l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il presente contributo evidenzia la centralità dei vincoli di origine sovranazionale nell’ambito del tribolato percorso di riforma del sistema sanzionatorio da mesi in corso. In quest’ottica, dopo aver richiamato il ruolo che il rispetto dei diritti fondamentali gioca ai fini dello sviluppo del processo di integrazione sovrastatuale in materia, ci si sofferma sulle ricadute negative che il sovraffollamento carcerario è suscettibile di produrre nell’ambito della cooperazione giudiziaria. Dopo aver posto l’accento sulle tensioni prodotte dal delicato rapporto tra mutuo riconoscimento e diritti dei detenuti, il lavoro sottolinea però l’importante contributo offerto da alcuni strumenti di diritto dell’Unione europea ai fini dell’elaborazione di standard minimi di tutela e in vista di un accrescimento del grado di fiducia reciproca tra gli attori della cooperazione in materia penale. Da ultimo il contributo si interroga sulla possibilità che le disposizioni di diritto europeo derivato possano favorire le logiche deflattive che ispirano l’azione riformatrice del legislatore italiano e garantire una reale pluridimensionalità del trattamento rieducativo all’interno dello spazio giudiziario senza frontiere interne.
La sentenza “Grande Stevens” della Corte europea dei diritti dell’uomo e la direttiva 2014/57/EU sulle sanzioni penali in materia di market abuse costringono il legislatore a passare tra Scilla e Cariddi: da una parte, il rispetto del ne bis in idem impone di rivedere la scelta di cumulare, in spregio ai principii di sussidiarietà e specialità, sanzioni penali ed amministrative per il medesimo fatto; dall’altra, l’osservanza degli obblighi europei di criminalizzazione determinerà l’abbandono della più efficiente sanzione amministrativa. La diretta applicabilità della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea garantisce, nelle materie di competenza di quest’ultima, una più avanzata tutela di tali diritti, chiamando in causa l’autorità giudiziaria e la stessa pubblica amministrazione.
Muovendo da alcune recenti pronunce delle Corti interna ed europea, l’Autrice evidenzia la problematicità del concetto di “prevedibilità dell’esito giudiziario” e della tendenza ad attribuire efficacia vincolante ai precedenti dei giudici europei. Sottolinea, per contro, l’esigenza di un approccio di tipo ermeneutico, volto ad esplicitare i presupposti assiologici e le conseguenze delle differenti opzioni interpretative.
Prendendo spunto da una recente sentenza della Corte di cassazione (Sez. II, 21 aprile 2015 n. 34147, Perego), che censura la sentenza della Corte EDU nel caso Contrada, l’Autrice disegna un possibile percorso di sviluppo dialogico e corale del diritto, risultante anche dall’incontro tra giudici nazionali e giudici sovranazionali.