La sentenza della Corte EDU sul caso Contrada, comunque la si valuti nel merito, addita esigenze di arricchimento del principio di legalità, che trovano fondamento non solo nella legalità europea, ma anche, nell’ordinamento italiano, nel principio di colpevolezza come definito nella sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale. L’idea di legalità/prevedibilità vincola l’ermeneutica giudiziaria alla ricerca di significati precettivi riconoscibili dai destinatari.
L’A. commenta con favore la sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale, in tema di confisca dei beni oggetto di lottizzazione abusiva. Tale pronuncia è reputata condivisibile, specie per aver introdotto la nozione di giurisprudenza europea consolidata, che l’A. accosta a quella di diritto vivente. Sono sottolineati i margini di dubbio che la sentenza ha lasciato volutamente aperti, sia con riguardo alla facoltà del giudice comune di sollevare questione di costituzionalità sulla base di un diritto europeo non ancora consolidato, sia con riferimento ai poteri processuali di accertamento dei presupposti per confiscare un bene oggetto di lottizzazione abusiva. Viene peraltro enfatizzato l’obbligo per il giudice penale di accertare la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, quale condizione preliminare ai fini della legittimità della confisca urbanistica.
Con la sentenza n. 49/2015 la Corte costituzionale italiana è tornata sul rapporto fra diritto interno e CEDU. Il seguente contributo cercherà di contestualizzare questa decisione in un quadro più ampio di diritto comparato, grazie alla nozione di “disobbedienza funzionale”.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 49/2015, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità della confisca senza condanna, ha recepito l’esigenza di pienezza dell’accertamento dei presupposti della responsabilità. A ciò consegue l’esigenza di un contraddittorio processuale pieno. Senza risposta è rimasta l’eccezione in malam partem sollevata dalla Corte di cassazione, che ha invocato (capovolgendone il senso) una serie di principi costituzionali come controlimiti rispetto a garanzie liberali poste dalla CEDU.
Con la sentenza in esame, la Corte costituzionale si confronta con la questione, assai discussa in giurisprudenza, se possa essere disposta la confisca di un bene (nel caso di specie, la confisca dei manufatti e dei terreni abusivamente lottizzati) con una sentenza dichiarativa della prescrizione; e ciò alla luce della recente sentenza Varvara della Corte EDU, che ha ritenuto tale prassi contraria al principio di legalità in materia penale. La questione fornisce alla Consulta l’occasione per precisare la propria giurisprudenza in materia di rapporti tra ordinamento nazionale e giurisprudenza di Strasburgo, della quale viene ribadita in linea di principio la vincolatività, a condizione – però – che si tratti di una “giurisprudenza consolidata”. La nostra Corte rifiuta così di conformarsi al principio enunciato in Varvara, ritenuto (probabilmente a torto) un precedente isolato.
Lo scritto fa oggetto di studio l’ultimo orientamento della giurisprudenza costituzionale in ordine al rilievo interno della CEDU, evidenziando alcune aporie di carattere ricostruttivo in esso presenti, tanto con riferimento ai rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU, quanto con riguardo a quelli tra l’una Corte ed i giudici comuni. In particolare, gravida di imprevedibili sviluppi appare essere la circostanza per cui i giudici nazionali sono dalla decisione qui annotata chiamati a far luogo a delicate selezioni della giurisprudenza della Corte europea, essendo tenuti a conformarsi unicamente alle pronunzie di questa espressivi di un indirizzo “consolidato” e potendo (ed anzi dovendo) dalle stesse discostarsi laddove siffatto indirizzo faccia difetto e l’interpretazione prospettata dal giudice europeo possa rivelarsi incompatibile con la Carta costituzionale. Viene in tal modo a ribadirsi il carattere “subcostituzionale” della CEDU, un carattere che tuttavia fa a pugni con la paritaria condizione in cui tutte le Carte (Costituzione inclusa) versano, i loro rapporti essendo piuttosto governati dal canone della massimizzazione della tutela dei diritti evocati in campo dai casi.
Il presente scritto muove da una recente pronuncia delle Sezioni Unite, che mette sul tappeto in termini del tutto inediti la questione della tenuta del giudicato penale e dei conseguenti poteri della magistratura d’esecuzione a seguito di una decisione d’incostituzionalità di una norma penale diversa da quella incriminatrice. La questione ripropone il tema della legalità della pena in fase esecutiva, un tema che va ormai certamente affrontato alla luce del diritto costituzionale e dello international human rights law. Qui, peraltro, la Corte di Cassazione, movendo dal presupposto che la norma incostituzionale sia stata applicata dal giudice della cognizione, demanda al giudice dell’esecuzione la rideterminazione del bilanciamento tra circostanze e con essa la ridefinizione della sanzione, affidando così alla magistratura esecutiva scelte valoriali che competono al processo di cognizione. Questo lavoro analizza se e come, in una situazione quale quella affrontata dalle Sezioni Unite, tale conclusione sia praticabile e, ripercorrendo le tappe della distinzione sul piano dell’efficacia temporale della legge penale tra illegittimità costituzionale e riforma legislativa, propone una riflessione assiologicamente orientata sul giudicato penale.
Il progetto di riforma del codice penale spagnolo dal 2013 introduce una modifica sostanziale del sistema di misure di sicurezza ed include l’ergastolo nell’elenco delle sanzioni penali. Entrambe novità rappresentano una svolta del sistema punitivo verso un “diritto penale della sicurezza”, in contrasto con i principi di colpevolezza, legalità, proporzionalità e rieducazione, interpretati alla luce della Costituzione spagnola e della Convenzione europea dei diritti del uomo.
La Corte EDU ha messo in discussione, con affermazioni che hanno potenziali ricadute anche in altri settori dell’ordinamento, il sistema di doppio binario, amministrativo e penale, attorno al quale è strutturata la disciplina italiana degli abusi di mercato, rilevando sia la violazione del principio del ne bis in idem, sia quella del diritto ad un equo processo. In relazione a tali profili vengono dunque esaminate le relative implicazioni problematiche e le possibili soluzioni interpretative alla luce del necessario raccordo con gli obblighi di fonte convenzionale e quelli di origine euro-unitaria.
Doppio binario sanzionatorio e ne bis idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta?
Una recente sentenza della Corte EDU, ormai divenuta irrevocabile, giudica incompatibile con il diritto fondamentale al ne bis in idem, riconosciuto dall’art. 4 Prot. 7 CEDU, il sistema di ‘doppio binario’ tra sanzione amministrativa e sanzione penale (e tra i relativi procedimenti applicativi) in materia di abusi di mercato. Ferma restando la necessità di una profonda revisione di tale sistema da parte del legislatore, il presente contributo si interroga sulle ricadute di tale sentenza nell’ordinamento italiano, al di là dello specifico caso concreto deciso a Strasburgo, prospettando due strade alternative per conformarsi – già de iure condito – agli obblighi convenzionali: l’una che chiama in causa la Corte costituzionale, attraverso il meccanismo dell’art. 117, comma 1, Cost.; l’altra che presuppone invece la diretta applicazione, da parte dello stesso giudice ordinario, dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che è norma di rango primario suscettibile di produrre effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri, e che sancisce il diritto al ne bis in idem nella stessa estensione riconosciuta dall’art. 4 Prot. 7 CEDU.