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ISSN 2611-8858

Temi

CEDU

La rinnovazione della prova dichiarativa in appello alla luce della CEDU

Nella giurisprudenza della Corte EDU si è progressivamente affermato il diritto alla riassunzione della prova dichiarativa quando oggetto della cognizione e decisione del giudice dell’impugnazione sia l’integrale (ri) valutazione della responsabilità dell’imputato. Sviluppando il proprio itinerario interpretativo, in una serie di recenti pronunce la Corte di Strasburgo ha censurato come violazione dell’art. 6 CEDU l’omessa rinnovazione della prova nell’ipotesi di ribaltamento – in sede d’impugnazione – della sentenza di assoluzione in condanna. Nel presente lavoro si delineano presupposti e caratteri del diritto “convenzionale” alla rinnovazione della prova e se ne indaga l’impatto sull’ordinamento nazionale alla luce dei consolidati obblighi d’interpretazione conforme. Muovendo dall’analisi della più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, l’indagine si snoda attraverso tre linee direttrici: (ri)definizione dell’ambito di operatività, nell’ordinamento domestico, delle rationes decidendi proposte dalla Corte EDU; praticabilità di un’interpretazione dell’art. 603 c.p.p. conforme alla Convenzione; ricostruzione delle cadenze del vaglio in appello sulla rinnovazione della prova decisiva e controllo della relativa decisione in sede di legittimità. A livello sistematico, infine, il riconoscimento in sede europea del diritto alla rinnovazione della prova fa riemergere la scarsa coerenza dell’attuale struttura dell’appello nel sistema processuale penale e costituisce una preziosa occasione per una riflessione de iure condendo.

Confisca urbanistica e prescrizione: a Strasburgo il re è nudo

La terza sezione della Cassazione tenta, con l’ordinanza qui commentata, di ribellarsi alla Corte di Strasburgo, che nella sentenza Varvara c. Italia dell’ottobre 2013 ha ritenuto incompatibile con i diritti convenzionali l’applicazione della confisca dei terreni abusivamente lottizzati mediante una sentenza dichiarativa della prescrizione del reato. In particolare, la Cassazione invita la Corte costituzionale a impugnare l’arma dei ‘controlimiti’ ai vincoli discendenti dall’art. 117, comma 1 Cost., in nome dell’effettività tutela degli interessi – anch’essi costituzionalmente rilevanti – protetti dalla norma penale, i quali dovrebbero prevalere, nell’ottica della nostra S.C., rispetto alle ragioni di tutela del diritto di proprietà. Così facendo, la Cassazione fraintende tuttavia il senso della sentenza europea, che – in piena continuità rispetto ad altri precedenti – muove piuttosto dal riconoscimento che la confisca urbanistica è una vera e propria ‘pena’ dal punto di vista del diritto convenzionale, e che conseguentemente la sua inflizione presuppone una dichiarazione di colpevolezza dell’imputato, per definizione assente in una pronuncia in cui l’imputato venga invece ‘prosciolto’ dall’accusa formulata a suo carico.

Dal 2004 al 2014: lo sgretolamento necessario della legge sulla procreazione medicalmente assistita

Con l’entrata in vigore della legge n. 40 del 2004, il legislatore italiano ha introdotto una serie di limiti, divieti e sanzioni che esorbitano dalla loro naturale vocazione di semplice regolamentazione di comuni pratiche di fecondazione artificiale, sfociando piuttosto nella predisposizione di uno statuto punitivo che impone paternalisticamente scelte etiche ed ideologicamente orientate nel senso di una generale avversione verso procedimenti riproduttivi diversi da quelli ortodossi. A dieci anni dalla loro introduzione, le norme in materia di PMA non sembrano tuttavia destinate a sopravvivere: hanno infatti ripetutamente vacillato sotto la scure dei giudici nazionali ed europei, rivelandosi in tutta la loro incostituzionalità, nella loro illogicità sistematica e nell’inaccettabile indifferenza verso le esigenze concrete di coppie sterili o infertili.

Ardita la rotta o incerta la geografia? La disapplicazione della legge 40/2004 “in esecuzione” di un giudicato della Corte edu in tema di diagnosi preimpianto

Con l’ordinanza richiamata nel sottotitolo il Tribunale di Roma “chiude” di fatto la nota vicenda giudiziaria “Costa-Pavan”, in tema di diagnosi preimpianto e diritto all’accesso alla procreazione assistita da parte di coppie non sterili ma portatrici di gravi malattie ereditarie. Invece di essere fatto oggetto di questione di costituzionalità, l’art.4 della l. 40/2004 viene “disapplicato”, in modo da consentire immediatamente ai ricorrenti, pur capaci di avere figli, di usufruire di un trattamento di fecondazione assistita e, quindi, di una diagnosi e selezione preimpianto, così da superare nel caso specifico la discriminazione rispetto a coppie che, sugli stessi presupposti e per gli stessi fini, avrebbero la possibilità di accedere ad indagini prenatali ed eventualmente all’interruzione volontaria di gravidanza; discriminazione già censurata in una precedente decisione dalla Corte EDU, stimolata da un ricorso “diretto” degli stessi coniugi. L’analisi del provvedimento e dei peculiari percorsi procedurali che ad esso hanno condotto costituisce occasione per un approfondimento dei nessi tra sistema giuridico CEDU e ordinamento interno, nella prospettiva del c.d. “dialogo tra le Corti”. Tale approfondimento si giova, tra l’altro, di una rilettura delle sentenze sull’altrettanto noto caso “Scoppola”, che sembra rivelare una tendenza non pienamente dichiarata della giurisprudenza, persino costituzionale, ad asseverare forme di disapplicazione di norme di legge in esecuzione sostanziale di sentenze CEDU, limitata alle sole ipotesi in cui il giudice interno abbia a decidere del medesimo caso già preso in considerazione a Strasburgo. Una tendenza che potrebbe costituire un plausibile “compromesso” – nel caso specifico (connotato da profili problematici peculiari), ma anche più in generale – tra l’esigenza di mantener ferme la “separazione” tra potere giudiziario e legislativo nonché le logiche del principio di legalità, e l’opportunità di concedere al giudice italiano spazi di interazione diretta con quello sovranazionale, senza che tale interazione abbia ad incidere sulla dimensione “generale ed astratta” dell’ordinamento.

Repressione penale della tortura e Costituzione: anatomia di un reato che non c’è

In una Carta costituzionale che non conosce altri obblighi di criminalizzazione, il reato di tortura è il solo ad essere imposto e preteso. Eppure, nonostante quanto prescritto dall’art. 13, 4° comma, Cost. e dai relativi obblighi internazionali in materia, nel codice penale persiste l’assenza di un’apposita fattispecie repressiva. Che fondamento giuridico hanno le molteplici strategie argomentative adoperate a giustificazione di questo persistente vuoto di repressione penale? Quali, invece, sono le sue autentiche ragioni ordinamentali? E come mettere a valore il divieto internazionale di tortura già ora, nell’ambito del sindacato di costituzionalità delle leggi? L’indagine risponde a tali interrogativi, affrontando un fenomeno – la tortura – irriducibile al principio di legalità eppure non estraneo al nostro ordinamento, come accertato in non isolati pronunciamenti giurisdizionali.

L’adeguamento del sistema penale italiano al “diritto europeo” tra giurisdizione ordinaria e costituzionale

I giudici e gli avvocati italiani hanno ormai scoperto l’esistenza di un diritto europeo, che impone al sistema penale italiano precisi obblighi di adeguamento: obblighi che si rivolgono non soltanto al legislatore, ma anche – e in misura crescente – agli stessi giudici, ordinari e costituzionali. Questo breve intervento mira a formulare alcune semplici ‘istruzioni per l’uso’ del diritto europeo in materia penale e processuale penale, illustrando presupposti e metodo delle tre diverse tecniche di cui il giudice ordinario dispone per assicurare l’adeguamento del diritto interno agli obblighi europei (derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo o dal diritto primario o derivato dell’Unione europea): diretta applicazione della norma europea; interpretazione conforme della norma interna a quella europea; promovimento di un giudizio incidentale di legittimità costituzionale della norma interna contrastante con quella europea.

L’urlo di Munch della magistratura di sorveglianza

Il problema del sovraffollamento carcerario ha natura costituzionale, e impone di introdurre nell’ordinamento un rimedio giurisdizionale di ultima istanza quale il differimento dell’esecuzione della pena se da scontarsi in condizioni contrarie agli standard indicati dalla Corte EDU. E’ solo per l’assenza di “rime obbligate” che la Corte costituzionale non opera direttamente la manipolazione richiesta dai Tribunali di Sorveglianza di Venezia e di Milano. Il monito rivolto al legislatore affinché provveda senza indugio, fa della sentenza n. 279/2013 una dichiarazione d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata.

Rien ne va plus? Le garanzie CEDU “incontrano” (e si scontrano con) l’azione civile e la prescrizione dell’ordinamento francese: alla ricerca di check and balances interni all’art. 6

A seguito del decesso del padre, imputato in Francia per il reato di appropriazione indebita, gli eredi ricorrono dinanzi alla Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 2 in relazione a due profili. In primo luogo, gli stessi ritengono che lederebbe il giusto processo, sub specie di rispetto della parità delle armi, il meccanismo previsto in patria in base al quale il giudice penale è competente a pronunciarsi sul risarcimento del danno che grava sugli aventi causa del de cuius, nell’ipotesi in cui al momento della sua dipartita l’autorità giurisdizionale penale si sia pronunciata esclusivamente sull’azione penale, ritenendola prescritta. In secondo luogo, vi sarebbe stata l’inosservanza del principio di innocenza, come sancito nell’art. 6 § 2 CEDU, posto che solo post mortem l’imputato sarebbe stato dichiarato colpevole del reato contestatogli. I ricorrenti, quindi, ritenendo che la suddetta presunzione si estenda alla procedura di riparazione del danno in ragione del “legame” e del “ragionamento” istituito dal giudice penale tra procedura civile e penale, reputano che gli stessi possano agire in qualità di vittime dinanzi alla Corte europea al fine di ottenere la dichiarazione di violazione della presunzione di innocenza del proprio dante causa. Secondo il Collegio di Strasburgo, entrambe le doglianze sono fondate e conseguentemente lo Stato francese è condannato al pagamento di un indennizzo monetario. Traendo spunto da questa pronuncia, il commento si propone dunque di analizzare, in prima battuta, l’iter logico seguito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, focalizzando, poi, l’attenzione sulle conseguenze “a cascata” che deriverebbero dai principi di diritto ivi sanciti, assumendo quale punto di osservazione principalmente le disposizioni dell’ordinamento francese che disciplinano l’azione civile e la prescrizione.