Lo scritto fa oggetto di studio l’ultimo orientamento della giurisprudenza costituzionale in ordine al rilievo interno della CEDU, evidenziando alcune aporie di carattere ricostruttivo in esso presenti, tanto con riferimento ai rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU, quanto con riguardo a quelli tra l’una Corte ed i giudici comuni. In particolare, gravida di imprevedibili sviluppi appare essere la circostanza per cui i giudici nazionali sono dalla decisione qui annotata chiamati a far luogo a delicate selezioni della giurisprudenza della Corte europea, essendo tenuti a conformarsi unicamente alle pronunzie di questa espressivi di un indirizzo “consolidato” e potendo (ed anzi dovendo) dalle stesse discostarsi laddove siffatto indirizzo faccia difetto e l’interpretazione prospettata dal giudice europeo possa rivelarsi incompatibile con la Carta costituzionale. Viene in tal modo a ribadirsi il carattere “subcostituzionale” della CEDU, un carattere che tuttavia fa a pugni con la paritaria condizione in cui tutte le Carte (Costituzione inclusa) versano, i loro rapporti essendo piuttosto governati dal canone della massimizzazione della tutela dei diritti evocati in campo dai casi.
Con la sentenza in esame, la Corte costituzionale si confronta con la questione, assai discussa in giurisprudenza, se possa essere disposta la confisca di un bene (nel caso di specie, la confisca dei manufatti e dei terreni abusivamente lottizzati) con una sentenza dichiarativa della prescrizione; e ciò alla luce della recente sentenza Varvara della Corte EDU, che ha ritenuto tale prassi contraria al principio di legalità in materia penale. La questione fornisce alla Consulta l’occasione per precisare la propria giurisprudenza in materia di rapporti tra ordinamento nazionale e giurisprudenza di Strasburgo, della quale viene ribadita in linea di principio la vincolatività, a condizione – però – che si tratti di una “giurisprudenza consolidata”. La nostra Corte rifiuta così di conformarsi al principio enunciato in Varvara, ritenuto (probabilmente a torto) un precedente isolato.
Le Sezioni Unite decidono sulla rilevanza delle allegazioni che il soggetto “proposto” per l’applicazione della confisca di prevenzione può presentare per la giustificazione della provenienza dei beni nella sua disponibilità. In particolare, negano che i redditi occultati al fisco siano idonei a giustificare la sproporzione tra il valore dei beni rispetto all’attività economica svolta. Il presente contributo si interroga sulle ricadute della decisione, alla luce di un recente orientamento in tema di confisca allargata (art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992) che riconosce al suo destinatario la facoltà di dedurre i proventi dell’evasione fiscale. Il Supremo Collegio non estende siffatto orientamento anche alla confisca ante delictum, sostenendone l’incompatibilità rispetto al testo di legge e alla ratio. Il lavoro contesta l’estensione del sistema di prevenzione all’evasore fiscale.
La Direttiva 2014/42/UE, approvata in base agli artt. 83, § 1, 82, § 2, TFUE, persegue lo scopo di promuovere l’armonizzazione in materia di confisca, in particolare estesa, superando i limiti della decisione quadro n. 212/2005, con lo scopo ultimo di implementarne il mutuo riconoscimento ai sensi della decisione quadro n. 783/2006. Rappresenterà l’occasione per una riforma e forse razionalizzazione della disciplina in materia da parte degli Stati membri, anche se le scelte del legislatore europeo non sempre sembrano realizzare un corretto bilanciamento tra le esigenze dell’efficienza e le garanzie della materia penale (nella prima direzione, ad esempio, si prevede la confisca per equivalente degli strumenti del reato, nella seconda la clausola dell’onerosità per garantire il rispetto del principio di proporzione). L’art. 5 prevede un modello di confisca estesa, in seguito alla condanna, meno garantistico di quelli previsti nella decisione quadro 212, fondato su un problematico standard della prova “civilistico rinforzato”, attribuendo rilievo all’elemento della sproporzione e auspicando la delimitazione temporale della presunzione di illecita accumulazione patrimoniale. Il legislatore europeo all’art. 4 non accoglie, invece, sostanzialmente il modello della confisca senza condanna, ammesso solo nel caso di fuga e malattia, non credendo evidentemente nella possibilità di elaborare un modello di actio in rem, realmente giurisdizionalizzato e garantistico, come prospettato dalla Commissione LIBE, pur non escludendo la possibilità degli Stati membri di prevedere più estesi poteri di confisca o comunque di garantirne il mutuo riconoscimento.
In contrasto con un certo orientamento della giurisprudenza che utilizza in maniera spregiudicata la categoria dell’impresa mafiosa, per trasformare la confisca di prevenzione o la confisca allargata ex art. 12 sexies d.l. 306/’92, nonché la confisca ex art. 416, bis, c. 7, in una forma di confisca generale dei beni in violazione del principio di legalità e di proporzione, e del diritto di proprietà, la sentenza in esame si segnala per un approccio correttamente garantistico nell’applicare la categoria dell’impresa mafiosa, negando innanzitutto che si possa confiscare l’intera azienda in base al mero accertamento della pericolosità sociale e della “disponibilità” nei confronti dell’organizzazione.
La terza sezione della Cassazione tenta, con l’ordinanza qui commentata, di ribellarsi alla Corte di Strasburgo, che nella sentenza Varvara c. Italia dell’ottobre 2013 ha ritenuto incompatibile con i diritti convenzionali l’applicazione della confisca dei terreni abusivamente lottizzati mediante una sentenza dichiarativa della prescrizione del reato. In particolare, la Cassazione invita la Corte costituzionale a impugnare l’arma dei ‘controlimiti’ ai vincoli discendenti dall’art. 117, comma 1 Cost., in nome dell’effettività tutela degli interessi – anch’essi costituzionalmente rilevanti – protetti dalla norma penale, i quali dovrebbero prevalere, nell’ottica della nostra S.C., rispetto alle ragioni di tutela del diritto di proprietà. Così facendo, la Cassazione fraintende tuttavia il senso della sentenza europea, che – in piena continuità rispetto ad altri precedenti – muove piuttosto dal riconoscimento che la confisca urbanistica è una vera e propria ‘pena’ dal punto di vista del diritto convenzionale, e che conseguentemente la sua inflizione presuppone una dichiarazione di colpevolezza dell’imputato, per definizione assente in una pronuncia in cui l’imputato venga invece ‘prosciolto’ dall’accusa formulata a suo carico.
Traendo spunto dall’ordinanza n. 7289 del 2014 di rimessione alle Sezioni Unite, l’articolo affronta la questione se, ai fini della confisca ex art. 12 sexies d.l. n. 306/92 e ex art. 2 ter l. 575/65 (oggi art. 24 del d.lgs. n. 59/201), si debba tenere conto dei proventi dell’evasione fiscale per valutare se i beni posseduti siano di valore sproporzionato rispetto al reddito o all’attività economica del reo e, ancora più a monte, se si debba tenere conto dei redditi sottratti alla tassazione; questione rilevante anche per stabilire se i beni “risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” ex art. 2 ter l. 575/65. Tale questione assume un particolare rilievo in quanto, in seguito all’entrata in vigore del d.l. n. 92/2008, si è esteso l’ambito di applicazione della confisca ex art. 2 ter l. 575/65 nei confronti di tutti i soggetti a pericolosità generica, compresi gli evasori fiscali nell’interpretazione giurisprudenziale, e rileva anche nei confronti dei terzi laddove il valore sproporzionato del bene intestato a un terzo diventa elemento probatorio dell’intestazione fittizia.