L’articolo tratta della legittimità costituzionale e convenzionale della previsione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa di cui agli artt. 595, terzo comma, cod. pen. e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, soffermandosi sugli orientamenti della Corte europea dei diritti umani (sentenze Cumpănă e Mazăre, Katrami, Belpietro, Ricci e Sallusti) e della Corte costituzionale (ordinanza n. 132 del 2020) e sugli strumenti a disposizione del giudice comune per dare attuazione alle indicazioni ricavabili da tale giurisprudenza in ordine al bilanciamento da operare tra libertà di espressione – a un tempo diritto individuale e valore fondamentale dell’ordinamento democratico – e tutela della reputazione.
Il contributo si propone di esaminare nella prospettiva del diritto penale il problema della divulgazione di fake news tramite i social media, sia al fine di valutare se le condotte di diffusione di false notizie tramite il web possano già dar luogo a forme di responsabilità penale, sia al fine di sottoporre a vaglio critico le ragioni di politica criminale sottese alle istanze di espansione della punibilità che trovano espressione in numerose proposte legislative. Tali istanze devono essere valutate alla luce della più ampia tematica dell’impiego dello strumento punitivo in chiave di tutela della verità delle informazioni trasmesse al pubblico, cui si correla la questione dei limiti costituzionali all’incriminazione di condotte che si estrinsecano nella manifestazione di un pensiero, come tali astrattamente rientranti sotto la copertura dell’art. 21 Cost. In definitiva, si tratta di capire se le nuove istanze di criminalizzazione delle fake news rispondono a effettive esigenze di tutela ovvero si risolvono in una mera strumentalizzazione delle valenze simboliche del diritto penale in chiave di repressione delle opinioni di dissenso.
Processo penale e c.d. processo mediatico si differenziano, fra le altre, in ragione del diverso peso attribuito al fattore temporale: mentre il primo si sviluppa in senso diacronico, il secondo presenta natura pressoché istantanea, spesso esaurendosi nelle primissime fasi del procedimento vero e proprio. La divaricazione tra i due fenomeni si fa ancora più consistente laddove il canale mediatico sia internet, ove l’istantaneità del ‘processo’ si combina con la memorizzazione a oltranza del dato. Appare evidente, così, che eventuali articoli aventi a oggetto passate vicende criminali, se non rimossi, rettificati o semplicemente aggiornati, rischino di segnare irreversibilmente la dignità del soggetto coinvolto. Muovendo da tali acquisizioni, il presente lavoro si propone di indagare portata, pregi e limiti del c.d. diritto all’oblio nel peculiare contesto della cronaca giudiziaria via web.
L’evoluzione degli strumenti di comunicazione digitale e, soprattutto, l’affermazione dei social network hanno aperto la strada ad una pervasiva proliferazione dei discorsi d’odio in rete. Al fine di ostacolare la propagazione delle opinioni discriminatorie e non rispettose della dignità umana, risulta quanto mai rilevante la definizione del ruolo e delle eventuali responsabilità degli intermediari informatici, stante il contributo che gli stessi apprestano alla diffusione e alla permanenza in rete dei contenuti digitali, ma, soprattutto, in quanto principali soggetti in grado di rimuovere materialmente i messaggi illeciti. Occorre, tuttavia, verificare se l’approccio punitivo – e, più specificamente, il ricorso alla sanzione penale ̶ sia davvero il più ragionevole, considerati i rischi che una tendenza repressiva potrebbe implicare rispetto alla libertà di espressione degli utenti e alla libertà di impresa dei provider.
Muovendo da una nozione ristretta di processo mediatico e dall’assunto che si tratti di una patologia dell’informazione giudiziaria, si è cercato di verificare se la normativa esistente, a livello sovranazionale e nazionale, ed in particolare le norme penali in tema di diffamazione e trattamento illecito dei dati personali, siano di per sé idonee a porre un argine al dilagante fenomeno del processo mediatico. La risposta è tendenzialmente affermativa, soprattutto con riferimento alla normativa nazionale secondaria (codici di autoregolamentazione): questa normativa, tuttavia, ha trovato sin qui diversi ostacoli sul piano applicativo, che potrebbero essere superati se le istituzioni ponessero un’attenzione adeguata al problema.
La riforma del delitto di diffamazione è da tempo nell’agenda del legislatore: alcuni anni addietro sembrava si fosse giunti all’approvazione definitiva del Testo unificato all’esame delle Camere, ma poi, ancora una volta, l’iter si interruppe e la questione fu rimessa al nuovo Parlamento. Di recente il tema è tornato di stringente attualità per effetto della ‘pressione’ esercitata dalla giurisprudenza della Corte EDU rispetto alla previsione nelle legislazioni nazionali di pene detentive per fatti di diffamazione. Ad alimentare il dibattito sulla revisione complessiva della disciplina di settore dovrebbe poi concorrere la trasformazione dell’ingiuria in illecito punitivo civile ad opera del d.lgs. n. 7 del 2016. L’obiettivo del lavoro è di fare il punto sul percorso riformatore, analizzando il Testo unificato approvato dalla Camera nel giugno del 2015, e ora all’esame del Senato, per metterne in risalto luci e ombre, al contempo prospettando una diversa direttrice di riforma.