Il processo di armonizzazione su impulso europeo delle legislazioni criminali degli Stati UE non sembra circoscritto alle sole fattispecie incriminatrici appartenenti alla “parte speciale” del diritto penale. Al contrario, le fonti europee sia di hard sia di soft law e la giurisprudenza della Corte di giustizia hanno dato vita ad un ravvicinamento occulto, frammentario ed embrionale di alcuni principi e regole di “parte generale” funzionali a garantire l’effettiva realizzazione degli obiettivi perseguiti dai trattati e l’effettiva attuazione delle norme penali UE su scala continentale. Questo lavoro riflette sui possibili sbocchi di una simile armonizzazione/unificazione sia sul piano normativo sia sul piano giurisprudenziale e sugli ostacoli, attuali e potenziali, al raggiungimento di tale traguardo.
Gli ultimi due decenni hanno visto rafforzarsi nello scenario multiculturale europeo una concezione fortemente partecipativa di giustizia penale che, dovuta specie all’opera della giurisprudenza di Strasburgo, sta progressivamente diffondendosi in diversi settori del diritto processuale penale negli ordinamenti nazionali. All’interno del quadrante dell’Unione europea, superata la prima fase di normazione all’interno del III Pilastro, l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha posto le basi per l’avvio di un impegno delle istituzioni dell’Unione vòlto al consolidamento di standard minimi di tutela del diritto di difesa in relazione non solo alle procedure di cooperazione ma anche ai procedimenti nazionali. Sebbene ciò abbia dato avvio a una nuova stagione d’intensa attività normativa, il carattere abbastanza frammentario delle riforme varate fa sì che la voce e la partecipazione di privati all’amministrazione della giustizia penale sia ancora debole. Il presente scritto analizza il cammino percorso dall’Unione europea negli ultimi due decenni verso il rafforzamento di difesa nell’ambito di procedure sia nazionali sia transfrontaliere, verificando inoltre se e in che misura l’armonizzazione operata dall’Unione soddisfi i livelli di tutela richiesti dalla giurisprudenza di Strasburgo e stabiliti nei sistemi costituzionali nazionali.
Le sanzioni definite nelle norme minime delle direttive adottate dall’Unione europea nell’esercizio della propria competenza penale indiretta possono essere ordinate e classificate in diversi modelli muovendo – in via gradata – da clausole generali, del tipo “sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive”, fino a formule più analitiche, come quelle che prescrivono il minimo di pena detentiva massima. Dalle tecniche impiegate per la definizione degli elementi costitutivi delle sanzioni dipende il grado di armonizzazione delle pene a livello europeo, nonché il margine discrezionale di scelta che residua in capo al legislatore nazionale in prospettiva di riforma.
Il contributo verte sul versante transnazionale del principio del ne bis in idem, andando ad analizzare la recente giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e, in particolare, la sentenza nel caso Spasic. Al centro dell’indagine è il rapporto tra la condizione di esecuzione di cui all’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen e l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il presente contributo evidenzia la centralità dei vincoli di origine sovranazionale nell’ambito del tribolato percorso di riforma del sistema sanzionatorio da mesi in corso. In quest’ottica, dopo aver richiamato il ruolo che il rispetto dei diritti fondamentali gioca ai fini dello sviluppo del processo di integrazione sovrastatuale in materia, ci si sofferma sulle ricadute negative che il sovraffollamento carcerario è suscettibile di produrre nell’ambito della cooperazione giudiziaria. Dopo aver posto l’accento sulle tensioni prodotte dal delicato rapporto tra mutuo riconoscimento e diritti dei detenuti, il lavoro sottolinea però l’importante contributo offerto da alcuni strumenti di diritto dell’Unione europea ai fini dell’elaborazione di standard minimi di tutela e in vista di un accrescimento del grado di fiducia reciproca tra gli attori della cooperazione in materia penale. Da ultimo il contributo si interroga sulla possibilità che le disposizioni di diritto europeo derivato possano favorire le logiche deflattive che ispirano l’azione riformatrice del legislatore italiano e garantire una reale pluridimensionalità del trattamento rieducativo all’interno dello spazio giudiziario senza frontiere interne.
La sentenza “Grande Stevens” della Corte europea dei diritti dell’uomo e la direttiva 2014/57/EU sulle sanzioni penali in materia di market abuse costringono il legislatore a passare tra Scilla e Cariddi: da una parte, il rispetto del ne bis in idem impone di rivedere la scelta di cumulare, in spregio ai principii di sussidiarietà e specialità, sanzioni penali ed amministrative per il medesimo fatto; dall’altra, l’osservanza degli obblighi europei di criminalizzazione determinerà l’abbandono della più efficiente sanzione amministrativa. La diretta applicabilità della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea garantisce, nelle materie di competenza di quest’ultima, una più avanzata tutela di tali diritti, chiamando in causa l’autorità giudiziaria e la stessa pubblica amministrazione.
Vengono evidenziate motivazioni attinenti alla divisione dei poteri in base alle quali non può essere richiesto a un giudice, nemmeno dalla CGUE, di disapplicare disposizioni penali o processuali penali in base a un apprezzamento, di carattere generalpreventivo, circa il loro risultare di ostacolo, secondo l’esperienza giurisprudenziale, all’effettività applicativa, o all’efficacia dissuasiva, di determinate fattispecie incriminatrici. Su questa base (e non solo, dunque, con riguardo all’esigenza di evitare conseguenze retroattive in malam partem di pronunce europee), si valuta la prospettabilità della opposizione di «controlimiti» da parte della Corte costituzionale nella questione sollevata presso la medesima in rapporto alla sentenza CGUE «Taricco». La riflessione si estende al rapporto tra disposizioni europee e diritto penale interno, nonché, in particolare, al ruolo degli articoli 83 e 325 TFUE, come pure all’ambiguità della prefigurazione di «obblighi di risultato» in materia penale.
La Direttiva 2014/42/UE, approvata in base agli artt. 83, § 1, 82, § 2, TFUE, persegue lo scopo di promuovere l’armonizzazione in materia di confisca, in particolare estesa, superando i limiti della decisione quadro n. 212/2005, con lo scopo ultimo di implementarne il mutuo riconoscimento ai sensi della decisione quadro n. 783/2006. Rappresenterà l’occasione per una riforma e forse razionalizzazione della disciplina in materia da parte degli Stati membri, anche se le scelte del legislatore europeo non sempre sembrano realizzare un corretto bilanciamento tra le esigenze dell’efficienza e le garanzie della materia penale (nella prima direzione, ad esempio, si prevede la confisca per equivalente degli strumenti del reato, nella seconda la clausola dell’onerosità per garantire il rispetto del principio di proporzione). L’art. 5 prevede un modello di confisca estesa, in seguito alla condanna, meno garantistico di quelli previsti nella decisione quadro 212, fondato su un problematico standard della prova “civilistico rinforzato”, attribuendo rilievo all’elemento della sproporzione e auspicando la delimitazione temporale della presunzione di illecita accumulazione patrimoniale. Il legislatore europeo all’art. 4 non accoglie, invece, sostanzialmente il modello della confisca senza condanna, ammesso solo nel caso di fuga e malattia, non credendo evidentemente nella possibilità di elaborare un modello di actio in rem, realmente giurisdizionalizzato e garantistico, come prospettato dalla Commissione LIBE, pur non escludendo la possibilità degli Stati membri di prevedere più estesi poteri di confisca o comunque di garantirne il mutuo riconoscimento.