Il lavoro intende riflettere su una serie di questioni relative ai procedimenti sanzionatori amministrativi nel diritto cileno. In particolare si interroga sull’applicabilità dei principi del giusto processo in questa materia e sui limiti di tale applicabilità, soffermandosi quindi sul tema dello standard della prova per l’imposizione di sanzioni amministrative e sui rimedi giudiziali contro sentenze definitive pronunciate in questo ambito.
L’articolo analizza l’uso, nel processo penale cileno, di dichiarazioni rese da persone incolpate nell’ambito di procedimenti sanzionatori amministrativi e, in generale, in contesti istituzionali che non sono soggetti alle regole sulla tutela dell’autonomia dell’imputato caratteristiche del processo penale, e che non assicurano la volontarietà della dichiarazione, il cui rifiuto è anzi penalmente sanzionato.
Partendo dal sostanziale fallimento della politica criminale in materia di stupefacenti, l’articolo esamina le vie battute nel nostro ordinamento per ridimensionare l’area di rilevanza penale dei fatti aventi ad oggetto droghe ‘leggere’. Dall’analisi, emerge un quadro a due facce: da un lato, l’incapacità del legislatore di riformare l’attuale disciplina sul contrasto agli stupefacenti; dall’altro, la tendenza di certa giurisprudenza a escludere conseguenze penali per i fatti caratterizzati da minima pericolosità. Nel contributo, si argomenta che la soluzione esclusivamente giurisprudenziale, per quanto benefica, non sia sufficiente né in termini di certezza normativa, né in termini di efficace lotta al narcotraffico.
Nella sentenza in esame la Corte esclude che l’art. 25, c. II, Cost., possa essere evocato come parametro di costituzionalità per questioni riguardanti norme di depenalizzazione che non rispettano, ai sensi dell’art. 7 CEDU, il principio di irretroattività in materia penale, rinvenendo invece nell’art. 117, primo comma, Cost., il parametro appropriato. Dopo l’analisi della sentenza, l’Autore mette in luce come la distinzione del campo di operatività dei due parametri sia tutt’altro che nominalistica, ma si radichi invece nella condivisibile valorizzazione dell’autonomia tra sistema delle garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale. Infine si propone, in una sorta di riepilogo, un vademecum per la corretta costruzione delle questioni di costituzionalità da parte dei giudici remittenti.
Il d.l. n. 42/2008, convertito con modificazioni nella l. n. 48/2017 (c.d. decreto Minniti sulla sicurezza urbana), costituisce l’ultima tappa di un cammino ormai decennale, caratterizzato dal moltiplicarsi di soggetti e poteri funzionali alla tutela della sicurezza urbana. Le varie misure in commento sono riconducibili ad un proteiforme diritto punitivo municipale, di difficile catalogazione ma di sicuro impatto sui diritti costituzionali. L’analisi, svolta a più mani, si concentra sui profili penali, criminologici e amministrativi della nuova disciplina, per poi interrogarsi sul suo significato politico-criminale, sugli antecedenti storici e sul suo complessivo significato culturale.
La problematica applicabilità del principio di retroattività favorevole alle sanzioni amministrative
Il contributo analizza la sentenza con la quale la Corte costituzionale è recentemente tornata ad occuparsi del problematico rapporto tra il c.d. principio di retroattività favorevole e la disciplina delle sanzioni amministrative. In particolare, si approfondiscono le implicazioni operative della decisione alla luce dell'attuale dibattito sul regime applicabile alle misure afflittive “sostanzialmente penali” al crocevia dei rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento sovranazionale, tentando altresì di delineare delle soluzioni esegetiche alternative, in grado di fornire risposta agli interrogativi lasciati inevasi dalla pronuncia.
Pur rigettando la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 l. n. 689/1981, nella parte in cui non prevede in materia di sanzioni amministrative l'applicabilità del principio della retroattività della norma più favorevole sopravvenuta, la sentenza della Corte costituzionale, 20 luglio 2016, n. 193 pare cionondimeno porre le basi per il definitivo superamento di tale grave limite della citata l. n. 689/1981. Analizzata siffatta pronuncia e il contesto nel quale essa si iscrive, col presente contributo si cercherà di evidenziare per quali ragioni detta sentenza debba intendersi come un monito al legislatore, cui spetta ora rimarginare tale vulnus del nostro sistema sanzionatorio amministrativo.
Il settore penale in senso classico deve, sempre più, tenere conto dell’espansione di altre aree di diritto “punitivo”, soprattutto nell’ambito dell’accertamento amministrativo. La crescente complessità del sistema repressivo nel contesto comunitario, tuttavia, non può essere risolta solo con un’applicazione estensiva del divieto di bis in idem; si afferma invece in maniera impellente la necessità di riportare tutto il diritto punitivo, specialmente nella fase delle indagini o degli accertamenti amministrativi, all’interno del perimetro disegnato dalle garanzie dell’art. 6 CEDU. In questa prospettiva, ci si soffermerà, con una breve analisi, sui diritti dell’indagato nel panorama europeo, con particolare rilievo alle garanzie previste dai procedimenti amministrativi OLAF e anti-trust (DG Concorrenza) e dalla direttiva su alcuni aspetti della presunzione di innocenza.
Il presente contributo è il frutto di un lavoro di confronto tra la disciplina italiana e quella tedesca in materia di accertamento processuale dei reati di guida in stato di ebbrezza ed alterazione da droghe. Il parallelo muove dall’esame della normativa straniera, alla quale l’autrice giustappone quella interna, ravvisando man mano analogie e differenze. La diversa visione prospettica offre numerosi spunti di riflessione su temi spesso trascurati dal giurista italiano, due dei quali toccano punti nevralgici del processo penale: l’estensione accordata alla tutela del diritto contro le autoincriminazioni rispetto alle prove non dichiarative, da un lato; le regole di esclusione e valutazione della prova c.d. scientifica, dall’altro.
Le recenti pronunce delle Corti europee in tema di ne bis in idem, in particolare la sentenza Grande Stevens della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sembrano proporre una concezione sostanziale del canone ermeneutico della specialità, che impone di rivedere la prassi interpretativa interna relativa al principio di cui all’art. 9 della l. n. 689 del 24 novembre 1981, incentrata su un raffronto strutturale fra le fattispecie. Dietro queste differenze, riscontrabili nel piano interno e in quello europeo, si intravede la sottostante diversa dimensione della legalità penale. È proprio con tale diversità che si devono confrontare, oggi, gli operatori del diritto; in tema di specialità, ma non solo.