Partendo dalla ricostruzione in chiave temporale della divisione dei poteri di derivazione husserliana e passando attraverso la disamina di alcuni istituti di marca francese e italiana, il contributo vorrebbe segnalare l’emersione di una particolare figura di giudice penale, garante dell’interesse pubblico alla continuità aziendale. La questione dello sconfinamento di questo giudice in un ambito – la gestione di situazioni attuali di “crisi”, anche aziendale – di tipica competenza amministrativa conduce a individuare nella legislazione vigente uno schema d’intervento (il prototipo è dato dal commissariamento giudiziale) in cui la tradizionale divisione dei poteri è in parte rinunciata, e che tuttavia appare preferibile rispetto a soluzioni (vedi il c.d. modello “Ilva”) in cui i poteri coinvolti, pur proponendosi separati, entrano in conflitto. Rispetto a questa figura di giudice penale, garante dell’equilibrio tra le ragioni del diritto penale da un lato e dell’economia dall’altro, si pone tuttavia un problema di limiti, che il legislatore dovrebbe impegnarsi a tracciare.
Con il presente contributo, l’autrice intende proporre una sintesi dello stato attuale della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia ambientale: prendendo le mosse dalla nozione di obblighi positivi di tutela si sono analizzati i principali orientamenti interpretativi con cui i giudici hanno esteso la portata del diritto alla vita previsto dall’art. 2 Cedu e del diritto alla riservatezza e alla vita privata di cui all’art. 8 Cedu, per affermare un diritto all’ambiente di matrice convenzionale. La tutela della vittima da reato ambientale offre degli spunti di riflessione interessanti, rispetto alle sue ricadute sul piano interno, in ragione della recente riforma e nella più ampia prospettiva di protezione della persona offesa nel processo penale, sensibilmente ad oggi più rafforzata.
La decisione pronunciata dalla Corte europea dei diritti umani sul caso Smaltini c. Italia offre lo spunto per occuparsi, nel dibattito odierno dedicato «alla prova dei fatti» e segnatamente alle categorie dogmatiche ed agli standard probatori in prospettiva sovranazionale, del tema dell’accertamento della causalità penale dall’angolo prospettico degli obblighi procedurali di tutela convenzionale del diritto alla vita che vincolano le autorità giudiziarie nazionali a svolgere effettive attività di indagine per accertare le cause e punire i responsabili di decessi avvenuti in situazioni di inquinamento industriale. La pronuncia costituisce la risposta europea ad un ricorso per violazione del diritto alla vita prospettato da una donna, residente nell’area inquinata dall’attività produttiva dell’ILVA di Taranto, ammalatasi di leucemia mieloide acuta e pendente ricorso deceduta, che trae origine dall’archiviazione del procedimento penale per difetto di prova del nesso causale tra la patologia contratta e le emissioni inquinanti provenienti dallo stabilimento industriale. Rileva in termini significativi la scelta della Corte di Strasburgo di valutare alternativamente se le autorità italiane, nell’archiviare il procedimento penale per difetto di prova della causalità, abbiano adeguatamente motivato la loro decisione di non acquisire nuovi elementi probatori oppure, disponendo in realtà di «elementi sufficienti» per ritenere provato il «nesso causale», si siano rese responsabili della violazione dell’obbligo europeo. Dinanzi a tale alternativa, la prima conclusione – come si evince dalle espresse righe motivazionali del provvedimento europeo – ha trovato avallo «alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili all’epoca dei fatti». Ciò, tuttavia, come precisato dalla Corte europea, «senza pregiudizio dei risultati degli studi scientifici a venire», inciso questo che lascia aperte le porte a possibili conclusioni future di esito diverso nel segno dell’evoluzione scientifica.
La sentenza annotata si inscrive nel novero delle pronunce della Suprema Corte volte a riaffermare la piena vigenza, anche nel sistema della responsabilità ex crimine, del principio di legalità nelle sue diverse articolazioni. In particolare, la vicenda concreta è stata occasione per ribadire l’operatività del principio di irretroattività della norma sfavorevole all’ente in quanto estensiva della relativa responsabilità ai reati ambientali selezionati dal d.lgs. 121/2011, in fase di prima attuazione della direttiva 99/2008/CE sulla tutela penale dell’ambiente.