C'è una somiglianza sorprendente, tutt'altro che casuale, tra l'atteggiamento di uno Stato nei confronti della storia e il suo atteggiamento nei confronti dei diritti umani. Entrambe le posizioni, dopo tutto, riguardano essenzialmente le dichiarazioni o i silenzi di uno Stato in relazione a eventi importanti, siano essi di un passato recente o più remoto. Qualsiasi posizione dello Stato nei confronti del suo passato in relazione ai diritti umani comporta intrinsecamente un doppio rifiuto, sia delle visioni omesse che dei punti di vista che contraddicono il suo. Ci sono molti modi in cui le accuse di abusi dei diritti umani possono essere negate, ma il "negazionismo in malafede" da parte degli Stati è decisivo per i diritti umani. Il negazionismo in malafede non è un problema come la tortura o la mancanza di cibo. È un "meta-problema" per i diritti umani - il problema inerente a tutti i problemi dei diritti umani. Per la stessa natura dei diritti umani, in nessun modo la loro attuazione può, in linea di principio, essere prevista in assenza di adeguate possibilità di espressione all'interno della società, che consentano di sfidare documenti e storie ufficiali. La libera espressione, quindi, sebbene non sia certamente più importante di altri diritti in termini di pura esistenza umana – le protezioni dalla tortura o i diritti al cibo e all'acqua sono probabilmente più importanti - non deve essere considerata solo un altro diritto sulla "checklist” dei diritti umani. Al contrario, essa è l'unica salvaguardia contro il negazionismo in malafede da parte degli Stati, la condizione per la possibilità stessa di qualsiasi regime dei diritti umani: è l'unica misura significativa su cui valutare la “universalità” dei diritti umani.
Alla luce degli interventi precedenti, questo contributo mette in luce lo stato attuale della riflessione sul rapporto fra tempo memoria e diritto penale. In particolare, l’articolo evidenzia come lo spettro di tale discussione sia oggi molto ampio, imponendo di andare ben oltre la più circoscritta problematica della legittimità e opportunità della repressione del negazionismo della Shoah. Ciò non solo perché il negazionismo come reato oggi si riferisce sempre più ai crimini internazionali in generale, ma anche perché il negazionismo storico costituisce la matrice di fenomeni nuovi e diversificati, dalle teorie cospirative alle cd. fake news, che hanno in comune l’attacco al potere secondo una metodologia decostruttivista.
Il negazionismo è un fenomeno in continua espansione. La reazione intrapresa al fine di contrastarlo sembra espandersi allo stesso modo. Il comma 3-bis, art. 3 della legge n. 654 del 1975 introdotto in Italia lo scorso giugno, è in linea con una diffusa tendenza alla criminalizzazione di manifestazioni del pensiero che ribaltano in modo urticante e offensivo consolidate acquisizioni storiche. La disposizione italiana si spinge addirittura oltre, punendo non solo, in modo esplicito, la negazione della Shoah, ma anche dei crimini internazionali qualificati giuridicamente con rinvio allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Il presente lavoro rappresenta un tentativo di analisi della nuova disposizione. Sarà posta attenzione alla struttura della norma e al percorso parlamentare che vi è alla base, al fine di qualificarne la natura giuridica. Saranno poi valutate le implicazioni giuridiche, a seconda che la si consideri circostanza aggravante o titolo autonomo di reato. Infine, verrà delineata una breve comparazione tra le fattispecie penali di alcuni Paesi europei, per mettere in rilievo analogie e differenze in punto di eventi per i quali è fatto divieto di negazione.
La previsione (nella proposta approvata in prima lettura dal Senato) del negazionismo come circostanza aggravante del reato di cui all’art. 3 della c.d. legge Mancino, non comporta un’estensione dell’area dell’illecito penale. Sul terreno penalistico è priva di utilità, ma non presenta i rischi connaturati a un’incriminazione autonoma. Risponde a ragioni di opportunità politica: chiuderebbe il problema di dare attuazione alla direttiva quadro europea, e trasmette un messaggio di impegno politico contro l’antisemitismo.