Mettere in relazione concetti riferiti al processo penale e al diritto penale materiale offre una prospettiva interessante e non debitamente esplorata. È possibile che l’idea che il diritto processuale sia un mero strumento di esecuzione del diritto penale sostanziale debba essere rivisitata. Ci sono buone ragioni per ritenere che l’evoluzione della dogmatica penalistica e del sistema di teoria del reato sia stata guidata, in maniera rilevante se non in modo esclusivo, dalla necessità di agevolare il raggiungimento di un certo standard probatorio nel sistema di imputazione. I successivi mutamenti nelle ricostruzioni che la scienza penale ha fornito rispetto a concetti come dolo, autore, limiti dell’omissione, crisi della causalità e sviluppo dell’imputazione oggettiva – e alcuni altri – hanno avuto come conseguenza, che è improbabile sia casuale, una facilitazione dell’accertamento processuale. Se questa diagnosi è corretta, si apre un interessante dibattito sul fondamento etico di questa evoluzione.
Accertare il nesso di causalità tra esposizione a sostanze tossiche e patologie lungolatenti è spesso particolarmente difficile. Lo dimostrano l’esperienza statunitense della toxic tort litigation, nonché quella italiana dei processi penali per malattie professionali e da inquinamento industriale. Dopo una panoramica delle difficoltà che circondano l’accertamento del nesso causale nei “toxic cases”, il contributo si interroga sulla possibilità di valorizzare gli studi epidemiologici – principale fonte di prova scientifica nei procedimenti in questione – in modo diverso, e più efficace, rispetto a quanto accaduto finora
La decisione pronunciata dalla Corte europea dei diritti umani sul caso Smaltini c. Italia offre lo spunto per occuparsi, nel dibattito odierno dedicato «alla prova dei fatti» e segnatamente alle categorie dogmatiche ed agli standard probatori in prospettiva sovranazionale, del tema dell’accertamento della causalità penale dall’angolo prospettico degli obblighi procedurali di tutela convenzionale del diritto alla vita che vincolano le autorità giudiziarie nazionali a svolgere effettive attività di indagine per accertare le cause e punire i responsabili di decessi avvenuti in situazioni di inquinamento industriale. La pronuncia costituisce la risposta europea ad un ricorso per violazione del diritto alla vita prospettato da una donna, residente nell’area inquinata dall’attività produttiva dell’ILVA di Taranto, ammalatasi di leucemia mieloide acuta e pendente ricorso deceduta, che trae origine dall’archiviazione del procedimento penale per difetto di prova del nesso causale tra la patologia contratta e le emissioni inquinanti provenienti dallo stabilimento industriale. Rileva in termini significativi la scelta della Corte di Strasburgo di valutare alternativamente se le autorità italiane, nell’archiviare il procedimento penale per difetto di prova della causalità, abbiano adeguatamente motivato la loro decisione di non acquisire nuovi elementi probatori oppure, disponendo in realtà di «elementi sufficienti» per ritenere provato il «nesso causale», si siano rese responsabili della violazione dell’obbligo europeo. Dinanzi a tale alternativa, la prima conclusione – come si evince dalle espresse righe motivazionali del provvedimento europeo – ha trovato avallo «alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili all’epoca dei fatti». Ciò, tuttavia, come precisato dalla Corte europea, «senza pregiudizio dei risultati degli studi scientifici a venire», inciso questo che lascia aperte le porte a possibili conclusioni future di esito diverso nel segno dell’evoluzione scientifica.
Dopo una sintetica ricostruzione della struttura dell’accertamento del nesso causale, così come configurata dalla scienza giuridica e dalla giurisprudenza post Franzese, l’Autore compie una disamina dettagliata della più recente evoluzione giurisprudenziale in tema di causalità rispetto alle malattie professionali connesse all’amianto. Il quadro che ne esce è di estremo interesse, dovendosi registrare un netto contrasto in ordine all’effetto acceleratore sul mesotelioma da parte delle esposizioni successive alla c.d. iniziazione della patologia: nella giurisprudenza di merito, a un orientamento che afferma l’esistenza di tale effetto se ne contrappone un altro che invece lo nega; anche la giurisprudenza di legittimità risulta divisa tra un orientamento che accoglie l’ipotesi dell’effetto acceleratore e uno che invece prende atto di un contrasto all’interno dello stesso mondo scientifico. Alla luce di questo quadro si pone l’interrogativo se non sia divenuto necessario un intervento delle Sezioni Unite volto non tanto a prendere posizione sulla diatriba scientifica, quanto piuttosto a chiarire il ruolo del giudice allorquando la stessa spiegazione scientifica di un determinato decorso casuale reale risulta incerta. A ben vedere, infatti, all’origine di questi contrasti sembra essere la stessa sentenza Franzese e un consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi successivamente, i quali, attraverso il criterio della credibilità razionale, attribuiscono al giudice il ruolo di valutare lo stesso fondamento delle leggi scientifiche esplicative dei processi causali.
Il 22 ottobre 2012 il Tribunale dell’Aquila condanna i membri della Commissione Grandi Rischi –organo consultivo della protezione civile, di cui fanno parte alcuni tra i più grandi esperti italiani di vulcanologia e sismologia – a 6 anni di reclusione, per i delitti di omicidio colposo e lesioni colpose in relazione a 36 delle vittime del devastante sisma che aveva colpito la città nell’aprile del 2009. L’analisi della sentenza “Grandi Rischi” – definita “storica” dai mass media, ma accolta con preoccupazione dalla comunità scientifica internazionale – costituisce l’oggetto del presente lavoro. Si ripercorreranno, infatti, i passaggi fondamentali di tale pronuncia: quello relativo al nesso di causalità fra la condotta di tipo comunicativo tenuta dai membri della Commissione e l’evento morte (o lesioni) delle vittime e quello concernente, invece, la possibilità di muovere a questi ultimi un rimprovero per colpa, generica o specifica.