La lotta all’accumulo di ricchezza illecita trova nella confisca lo strumento principale d’intervento: strutturalmente “mutevole” e finalisticamente eclettica, la confisca assume tratti camaleontici che le consentono di adattarsi a molteplici scopi differenti, sia sul piano della prevenzione che su quello della repressione. La confisca è in tal senso la manifestazione più emblematica di quel modello di diritto penale ‘moderno’, votato all’efficienza contrastiva, al quale sembra tendere la politica criminale degli ultimi anni. Il presente contributo mira a tratteggiare le coordinate essenziali per orientare l’interprete all’interno del vasto e complesso panorama ablatorio esistente.
Nella sentenza in esame la Corte esclude che l’art. 25, c. II, Cost., possa essere evocato come parametro di costituzionalità per questioni riguardanti norme di depenalizzazione che non rispettano, ai sensi dell’art. 7 CEDU, il principio di irretroattività in materia penale, rinvenendo invece nell’art. 117, primo comma, Cost., il parametro appropriato. Dopo l’analisi della sentenza, l’Autore mette in luce come la distinzione del campo di operatività dei due parametri sia tutt’altro che nominalistica, ma si radichi invece nella condivisibile valorizzazione dell’autonomia tra sistema delle garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale. Infine si propone, in una sorta di riepilogo, un vademecum per la corretta costruzione delle questioni di costituzionalità da parte dei giudici remittenti.
Pur rigettando la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 l. n. 689/1981, nella parte in cui non prevede in materia di sanzioni amministrative l'applicabilità del principio della retroattività della norma più favorevole sopravvenuta, la sentenza della Corte costituzionale, 20 luglio 2016, n. 193 pare cionondimeno porre le basi per il definitivo superamento di tale grave limite della citata l. n. 689/1981. Analizzata siffatta pronuncia e il contesto nel quale essa si iscrive, col presente contributo si cercherà di evidenziare per quali ragioni detta sentenza debba intendersi come un monito al legislatore, cui spetta ora rimarginare tale vulnus del nostro sistema sanzionatorio amministrativo.
L’introduzione presenta alcune forme di intersezione tra diritto penale e processo in prospettiva internazionale, europea e interna che sono approfondite negli articoli pubblicati a seguire in questo numero, i quali costituiscono gli atti del VI corso di formazione interdottorale di diritto e procedura penale “Giuliano Vassalli” per dottorandi e dottori di ricerca organizzato dall’Istituto superiore internazionale di scienze criminali (ISISC) a Noto nei giorni 18-20 settembre 2015.
Prendendo spunto dall’acceso dibattito che ha animato gli interpreti a proposito della duplicazione delle sanzioni, in sede penale ed amministrativa, viene da domandarsi se, sul piano dell’accertamento del fatto, le garanzie tipiche della giurisdizione penale debbano essere attuate anche nel procedimento sanzionatorio extrapenale. Si pensi in particolare al principio del contraddittorio, inteso come metodo di partecipazione dialettica alla formazione della prova, in grado di assicurare il miglior risultato possibile in termini di qualità dell’accertamento, nonché come componente fondamentale del diritto di difesa dell’accusato. Occorre comprendere se il riconoscimento del principio nei procedimenti “ispettivi” (della specie, ad esempio, di quelli condotti dalla Banca d’Italia o dalla Consob), debba ritenersi imposto alla luce del sistema delle fonti non soltanto interne di rango costituzionale, ma anche sulla base dei vincoli di natura sovranazionale derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Del resto, se proprio dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo viene riconosciuto che la sanzione applicata all’esito del procedimento extrapenale, possa avere natura sostanzialmente penale, non si giustifica un approccio meno garantistico – rispetto a quello del processo penale – nell’accertamento del fatto.
Il settore penale in senso classico deve, sempre più, tenere conto dell’espansione di altre aree di diritto “punitivo”, soprattutto nell’ambito dell’accertamento amministrativo. La crescente complessità del sistema repressivo nel contesto comunitario, tuttavia, non può essere risolta solo con un’applicazione estensiva del divieto di bis in idem; si afferma invece in maniera impellente la necessità di riportare tutto il diritto punitivo, specialmente nella fase delle indagini o degli accertamenti amministrativi, all’interno del perimetro disegnato dalle garanzie dell’art. 6 CEDU. In questa prospettiva, ci si soffermerà, con una breve analisi, sui diritti dell’indagato nel panorama europeo, con particolare rilievo alle garanzie previste dai procedimenti amministrativi OLAF e anti-trust (DG Concorrenza) e dalla direttiva su alcuni aspetti della presunzione di innocenza.
Il progressivo recepimento nell’ordinamento interno della nozione di “pena” elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo non può che incidere anche sull’attuazione della riforma del sistema sanzionatorio delineata nella legge delega n. 67/2014. In particolare, nell’ottica di una diversificazione delle strategie sanzionatorie, attraverso una valorizzazione delle sanzioni amministrative e di quelle etichettate come “civili”, non pare comunque consentito un arretramento di determinate garanzie collegate al principio di colpevolezza, valevoli rispetto ad ogni manifestazione della potestà punitiva.
Con la sentenza n. 49/2015 la Corte costituzionale italiana è tornata sul rapporto fra diritto interno e CEDU. Il seguente contributo cercherà di contestualizzare questa decisione in un quadro più ampio di diritto comparato, grazie alla nozione di “disobbedienza funzionale”.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 49/2015, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità della confisca senza condanna, ha recepito l’esigenza di pienezza dell’accertamento dei presupposti della responsabilità. A ciò consegue l’esigenza di un contraddittorio processuale pieno. Senza risposta è rimasta l’eccezione in malam partem sollevata dalla Corte di cassazione, che ha invocato (capovolgendone il senso) una serie di principi costituzionali come controlimiti rispetto a garanzie liberali poste dalla CEDU.
L’A. commenta con favore la sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale, in tema di confisca dei beni oggetto di lottizzazione abusiva. Tale pronuncia è reputata condivisibile, specie per aver introdotto la nozione di giurisprudenza europea consolidata, che l’A. accosta a quella di diritto vivente. Sono sottolineati i margini di dubbio che la sentenza ha lasciato volutamente aperti, sia con riguardo alla facoltà del giudice comune di sollevare questione di costituzionalità sulla base di un diritto europeo non ancora consolidato, sia con riferimento ai poteri processuali di accertamento dei presupposti per confiscare un bene oggetto di lottizzazione abusiva. Viene peraltro enfatizzato l’obbligo per il giudice penale di accertare la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, quale condizione preliminare ai fini della legittimità della confisca urbanistica.