Il presente intervento intende offrire una panoramica degli strumenti normativi esistenti e futuri nella cooperazione giudiziaria europea antiterrorismo, con alcune riflessioni critiche circa la loro portata applicativa. Partendo dalla risoluzione dei conflitti di giurisdizione, passa per l’analisi delle norme sullo scambio di informazioni e sugli strumenti operativi. Infine, dà conto della rilevante giurisprudenza delle corti europee sulla cooperazione giudiziaria antiterrorismo e suggerisce prospettive di riforma del quadro normativo nell’UE.
È difficile cogliere a pieno le future ripercussioni dell’ordine europeo di indagine penale sul nostro sistema. Già si intravede, nondimeno, una parte più rassicurante della nuova disciplina, laddove la direttiva 2014/41 assicura la salvaguardia delle regole nazionali di ammissibilità degli atti istruttori, ed una, invece, più preoccupante, relativa alle modalità di raccolta delle prove. La direttiva non garantisce, a quest’ultimo riguardo, che tutte le norme interne saranno rigorosamente osservate. Ma qui viene in soccorso il principio di proporzionalità previsto dall’art. 52 § 1 della carta di Nizza, mirato ad assicurare un ragionevole bilanciamento fra la conservazione delle garanzie nazionali e il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione, a pena dell’inutilizzabilità delle prove raccolte. Non è un antidoto infallibile. Ma in un sistema giuridico globalizzato che ha perso la guida delle tradizionali fattispecie legislative, esso perlomeno postula l’onere di motivare qualunque allontanamento dai nostri standard. La speranza è che ne derivino regole probatorie che, per quanto di matrice giurisprudenziale, risultino sufficientemente equilibrate e prevedibili nel loro esito, così come esige il principio di legalità processuale.
Solo in apparenza limitandosi a riproporre soluzioni già sperimentate in passato, la nuova direttiva sull’ordine europeo di indagine penale (o.e.i.) genera una vera e propria metamorfosi delle prescrizioni probatorie previste dal nostro ordinamento. Da “regole” a struttura chiusa, imperniate su bilanciamenti tra i valori in gioco prestabiliti in astratto dal legislatore, queste prescrizioni si trasformano in “principi” a struttura aperta, il cui contenuto può essere individuato dal giudice in ciascuna vicenda concreta in base ad un proprio contemperamento tra le varie esigenze che si contrappongono nella raccolta transnazionale delle prove. Di qui il rischio che le autorità giudiziarie chiamate a raccogliere e ad utilizzare prove in base alla direttiva eccedano i poteri loro conferiti. È un pericolo che, come dimostrano alcune decisioni in tema di mandato di arresto europeo, non sempre la Corte di giustizia dell’Unione Europea è in grado di fronteggiare. Un possibile antidoto è rinvenibile nello stesso diritto UE: si identifica con il rispetto del principio di equivalenza con gli standards di protezione dei diritti fondamentali rinvenibili nella CEDU e nelle Costituzioni nazionali e del principio di proporzionalità, statuiti dagli artt. 52 e 53 Carta di Nizza. Ne discende che l’Unione non tollera restrizioni dei diritti fondamentali non finalizzate a proteggere interessi degni di rilevanza, non controbilanciate da adeguate garanzie processuali e non strettamente necessarie. Alle luce di queste coordinate di fondo è possibile delineare alcune guidelines operative nell’impiego degli o.e.i. tali da interferire, in particolare, con il diritto al confronto ed il diritto alla riservatezza.