Nella sentenza in esame la Corte esclude che l’art. 25, c. II, Cost., possa essere evocato come parametro di costituzionalità per questioni riguardanti norme di depenalizzazione che non rispettano, ai sensi dell’art. 7 CEDU, il principio di irretroattività in materia penale, rinvenendo invece nell’art. 117, primo comma, Cost., il parametro appropriato. Dopo l’analisi della sentenza, l’Autore mette in luce come la distinzione del campo di operatività dei due parametri sia tutt’altro che nominalistica, ma si radichi invece nella condivisibile valorizzazione dell’autonomia tra sistema delle garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale. Infine si propone, in una sorta di riepilogo, un vademecum per la corretta costruzione delle questioni di costituzionalità da parte dei giudici remittenti.
La presente riflessione, partendo dall’analisi delle perplessità ermeneutiche da sempre suscitate dalla circostanza aggravante della “ingente quantità” di stupefacenti, si incentra sul lungo cammino interpretativo compiuto dalla giurisprudenza allo scopo di superare i dubbi di costituzionalità sollevati dalla disciplina dettata dall’art. 80, co. 2. d.P.R. n. 309/1990 e di perimetrarne la portata applicativa, per poi giungere agli ulteriori interrogativi che tali arresti giurisprudenziali hanno generato, senza trascurare le ultime prese di posizione della Corte di Cassazione, rese necessarie dall’intervenuto mutamento del quadro normativo in materia di sostanze droganti.
Precarietà e incertezza sembrano affliggere, nei tempi recenti, la prescrizione del reato, quando la si osservi da una prospettiva sovranazionale o comparata. Sullo sfondo, si pone il problema della tenuta del nostro sistema nel suo complesso, e persino della sua identità, come l’abbiamo concepita e tramandata di generazione in generazione. Con l’ordinanza n. 24 del 2017, la Corte costituzionale, sollevando una nuova questione pregiudiziale, mostra l’intento di non consumare una rottura del dialogo con l’ordinamento UE, limitandosi a paventare il rischio di ricorrere ai controlimiti, senza effettivamente porli in essere. Tuttavia, il provvedimento appare criticabile per alcuni argomenti utilizzati, e per la posizione assunta, che sembra lasciare poco spazio per specificazioni e aggiustamenti alla Corte di giustizia. La decisione, infatti, pur mostrando formalmente apertura a un confronto con la Corte di giustizia, tende a proporre in realtà una divisione tra mondi opposti e inconciliabili: di qua il diritto italiano, con la sua tradizione irrinunciabile; di là quello europeo, al quale formalmente si mostra deferenza (purché non si ingerisca in questioni vitali). Sembra il piano per una sorta di convivenza da separati, che certo ha il pregio di guadagnare tempo. Tuttavia, non si intravvede, nel ragionamento condotto, alcuna strada per raggiungere, o almeno per intraprendere il cammino verso una integrazione reale degli ordinamenti: è questo, in realtà, il nodo che, se non affrontato adesso, tenderà a riproporsi in successive occasioni.
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione affronta la complessa questione relativa alle concrete ricadute applicative nel nostro ordinamento della sentenza Contrada c. Italia, negando a Marcello Dell’Utri la possibilità di avvalersi dei principi di diritto da essa espressi per ottenere la revoca ex art. 673 c.p.p. della propria condanna. In questo modo, i giudici di legittimità interpretano restrittivamente la portata precettiva della sentenza europea in relazione ai c.d. “fratelli minori” del ricorrente vittorioso, e cioè a coloro che, pur non avendo essi stessi proposto ricorso a Strasburgo, assumono di aver subito la medesima violazione riscontrata dalla Corte europea. La vicenda qui all’esame sollecita ancora una volta gli interpreti a interrogarsi su quali siano i meccanismi processuali più idonei ad assicurare il rispetto dell’obbligo di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, gravante sullo Stato in forza dell’art. 46 CEDU; più in radice, però, invita a riflettere circa la reale necessità di un’estensione erga omnes della ratio decidendi della sentenza Contrada, anche alla luce di una sua lettura nel più ampio contesto della giurisprudenza di Strasburgo in materia di legalità penale.
Nella lotta interna al terrorismo internazionale il legislatore italiano, in estrema approssimazione, ha normato secondo due tipi di trend. Da un lato, si è cercato di colpire le organizzazioni terroristiche a monte, sul piano del sostentamento economico, mediante una serie di disposizioni volte a congelarne i beni; dall’altro, sono state predisposte norme fortemente anticipatorie della soglia della tutela penale. La criminalizzazione di semplici atti preparatori, ingrediente fondamentale nella lotta ad un fenomeno che si mira a prevenire, non determina problemi allarmanti; a contrario, le fattispecie che anticipano la soglia dell’intervento penale per il tramite di condotte particolarmente generiche, attraverso disposizioni che si pongono palesemente in contrasto con il principio di tassatività, rappresentano una degenerazione del sistema che rischia di consegnare al potere giudiziario un’eccessiva libertà discrezionale. Non potendo le possibili soluzioni sul piano ermeneutico soddisfare l’operatore giuridico, è quindi necessario che il legislatore intervenga nel modo più coerente possibile con il principio di tassatività delle fattispecie penali. In ultimo luogo, è auspicabile che vengano altresì predisposte idonee politiche d’integrazione al fine di prevenire, sul piano sociale prim’ancora che penale, l’insorgenza di radicalizzazioni che possano sfociare in fenomeni terroristici.
L’art. 25-quater ha fatto ingresso nel sistema delineato dal d.lgs. n. 231/2001 mediante la l. 14 gennaio 2003, n. 7, in attuazione di obblighi di matrice sovranazionale che, nel più ampio quadro di contrasto al fenomeno terroristico, imponevano il riconoscimento di forme di responsabilità anche a carico della persona giuridica. La circostanza che la disposizione in commento non sia mai stata applicata – a dispetto dell’attuale escalation della minaccia terroristica a livello globale – induce ad interrogarsi sulla funzione e sull’effettività della fattispecie nell’economia del ”decreto 231”. Muovendo dalla ricognizione delle fonti sovranazionali di riferimento, il presente contributo si sofferma sulle principali questioni interpretative sollevate dalla norma, con l’obiettivo di evidenziarne i profili di frizione con il principio di legalità e con il criterio oggettivo d’imputazione dell’interesse o vantaggio, illustrando al contempo le significative ricadute sul piano della costruzione del modello organizzativo.
In sede di accertamento della finalità di terrorismo, il giudice si trova a dover risolvere una serie di questioni interpretative. L’articolo si propone di esaminare la difficoltà di qualificare una condotta come terroristica, analizzando il contenuto delle disposizioni interne e riportando alcuni casi giurisprudenziali significativi. Per illustrare la complessità normativa entro cui si muove l’interprete, le conclusioni rese di recente dell’Avvocato Generale della Corte di giustizia, nella causa A e a. contro Minister van Buitenlandse Zaken, offrono lo spunto per riflettere sulla vexata quaestio della distinzione tra atti di guerra e atti di terrorismo e sull’interpretazione conforme come strumento di risoluzione delle antinomie.
La pubblicazione della nota "sentenza Corvetta" ha riaperto annosi dubbi e divergenze d'opinione sul ruolo assunto dalla sentenza di fallimento nella struttura dei reati di bancarotta, nonché sulla connessa legittimità costituzionale delle fattispecie basate su di una rilevanza oggettiva di tale elemento. Dall'analisi di quella pronuncia, nonché dal conseguente dibattito dottrinale e, soprattutto, dalle successive prese di posizione della giurisprudenza emerge un quadro di perdurante incertezza interpretativa, tale da porre in dubbio la possibilità di apprezzare un effettivo grado di "tassatività" e "ragionevolezza" dell'attuale disciplina legislativa.
Il commento trae spunto dalla recente pronuncia della Corte di Cassazione 12 gennaio 2016, n. 890, nella quale si è deciso per l’immutata rilevanza penale delle false valutazioni, anche a seguito delle novità introdotte dalla legge n. 69 del 2015 alla fattispecie di cui all’art. 2621 c.c. La Corte, vagliando la questione a più livelli interpretativi, ribalta la soluzione accolta nel suo primo intervento sul tema. Nel contributo, dopo l’analisi dei più significativi passaggi della pronuncia sulla questione principale, la riflessione si incanala su un binario ulteriore, considerando i possibili effetti derivanti dalla lettura offerta dalla Corte in tema di “materialità”, “rilevanza” e criteri di stima del falso valutativo.
Lo studio analizza concetto, sviluppo attuale ed eventi paradigmatici del diritto giurisprudenziale penale, in relazione ai temi della giurisprudenza-fonte, del precedente, e ai limiti costituzionali di riserva di legge, tassatività e divieto di analogia. La ricerca indaga la categoria dell’illecito interpretativo per violazione del principio d’irretroattività dei mutamenti (o dei prodotti) giurisprudenziali imprevedibili, ma legittimi. L’attenzione si concentra sui casi sottratti a tale principio (diritto-concretizzazione e individualizzante, ovvero analogia occulta) e a quelli che invece sono a esso sottoposti, nella diversa incidenza della disciplina dell’ignorantia legis e del ruolo nomofilattico delle Sezioni Unite e delle Corti supreme. Conclude lo scritto un aggiornamento ricostruttivo del rapporto tra prevedibilità del diritto e sillogismo giudiziale.