L’autore analizza una recente sentenza della High Court of Justice dell’Inghilterra e Galles, la quale è stata, a più voci, presentata come la prima decisione giudiziale a livello globale ad aver affrontato, in modo analitico, la tematica della compatibilità con il diritto alla riservatezza dell’utilizzo da parte delle forze di polizia di software di riconoscimento facciale. Pur non essendo riuscita a sedare l’acceso contrasto britannico tra sostenitori e detrattori dei facial recognition systems, siffatta pronuncia presenta aspetti di grande interesse anche per l’ordinamento italiano, nel quale gli strumenti in questione sono in dotazione alle autorità di law enforcement, ma non hanno una regolazione normativa soddisfacente.
L'articolo sottopone ad analisi critica le principali posizioni dottrinali e giurisprudenziali in materia di repressione dell'attività neofascista, seguendo tre direttrici di indagine. In primo luogo, muovendo dall'esame delle più recenti sentenze, ci si sofferma sulla rilevanza penale dell'uso di simboli e rituali fascisti e sulla riconducibilità di un tale uso all'art. 5 l. 645/1952 (c.d. legge Scelba), ovvero all'art. 2 d.l. 122/1993 (c.d. legge Mancino): al fine di distinguere le aree di applicabilità delle due fattispecie, la prima parte del lavoro è dedicata ad approfondire il tema della loro oggettività giuridica. L'esame delle decisioni relative all'art. 5 l. 645/1952 sollecita, peraltro, una riflessione sulla reale praticabilità processuale dello schema del pericolo concreto, imposto dalle indicazioni interpretative della Consulta in questa materia; i percorsi ermeneutici alternativamente seguiti dalla giurisprudenza, e gli esiti disomogenei cui essa perviene, suggeriscono di interrogarsi sulla possibilità di svincolare l'applicazione della norma dalla prognosi di pericolosità in concreto, superando al contempo il dubbio che, ricostruita come reato di pericolo astratto, la fattispecie possa contrastare con l'art. 21 Cost. Infine, il tema del pericolo implica una riflessione sulla sua attualità e, conseguentemente, sull'adeguatezza funzionale e la perdurante necessità di una repressione penale dell'attività neofascista.
L’incessante scambio di dati ed informazioni nel mondo del web ha imposto una rivisitazione dei paradigmi classici del bene giuridico della privacy. Emblematico è, in tal senso, il reato di trattamento illecito dei dati personali, di cui all’art. 167 Codice privacy (D. Lgs. 196/2003), oggetto di numerosi interventi correttivi per adeguarlo alle moderne e mutevoli esigenze di tutela. L’indagine riflette dunque sulla recente riforma (D. Lgs. 101/2018) che sembra voler recuperare l’offensività del tipo delittuoso attraverso la formulazione di un reato di evento il cui disvalore è incentrato sul nocumento all’interessato: tuttavia, in modo apparentemente inconciliabile, viene mantenuto un dolo specifico di danno, che si sovrappone al risultato materiale conseguito dall’agente. Infine, si cerca di dimostrare come stia emergendo una nuova oggettività giuridica di carattere pubblicistico, ossia il sistema di protezione dei dati personali, la cui tutela è demandata agli artt. 167-bis e 167-ter.
Il lavoro si propone di analizzare l’impianto sanzionatorio previsto dalla vigente normativa in materia privacy, recentemente oggetto di importanti modifiche a livello comunitario e nazionale. Nell’ambito di una concisa ricostruzione degli illeciti amministrativi e penali oggi previsti dal cd. GDPR e dal Codice Privacy, si evidenziano le criticità connesse alla formulazione normativa dei suddetti illeciti, non sempre di univoca interpretazione. Il Legislatore pare aver adottato il cd. doppio binario sanzionatorio: la seconda parte dell’elaborato è dunque dedicata alla valutazione della compatibilità di tal impostazione con il principio del ne bis in idem, così come elaborato dai giudici sovranazionali. Infine, alcune riflessioni sulla ratio sottesa alla reiterata scelta legislativa del citato doppio binario e la prospettazione di una via d’uscita dalla problematica: la riconduzione di entrambe le categorie di illeciti ad un unico sistema punitivo, con applicazione del principio di specialità ex art. 9, l. 689/1981.
L’individuazione delle posizioni di garanzia nel settore della tutela dei dati personali costituisce un tema quasi inesplorato, sia da parte degli studiosi della materia, sia da parte della giurisprudenza, di merito e di legittimità. Tale tema, tuttavia, merita un rinnovato interesse a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento Europeo per la Protezione dei Dati Personali e del relativo decreto di adeguamento (d.lgs.101/2018): è la stessa architettura di tali complessi normativi, infatti, a polarizzare l’attenzione sulla gestione del rischio e sulla accountability dei soggetti individuati quali garanti dell’integrità e della sicurezza dei dati e dei sistemi informatici. Il presente contributo mira, dunque, alla ricostruzione delle posizioni di garanzia nel settore della tutela dei dati e al conseguente inquadramento delle relazioni intersoggettive tra i garanti.
Il contributo analizza l’incidenza del canone di proporzione in rapporto alle nuove tecnologie di sorveglianza occulta sempre più di frequente impiegate nel contesto dell’indagine penale, prendendo dapprima in esame il contesto normativo e giurisprudenziale esistente a livello sovranazionale per poi soffermarsi sull’ordinamento italiano, esaminando infine talune criticità determinate da un ricorso al canone che non pare sempre assistito da adeguata consapevolezza.
Il nuovo volto della criminalità organizzata ha posto i sistemi d’indagine tradizionali in grave difficoltà, evidenziando “l’incapacità investigativa” delle Autorità Giudiziarie di contrastare, in maniera efficace, il traffico di droga e la cessione di materiale pedopornografico attraverso il web. Solo con il ricorso alle indagini informatiche gli organi investigativi sono posti in condizione di ricercare ed assicurare il dato probatorio. Il nuovo orizzonte investigativo è rappresentato dalle intercettazioni di comunicazioni tra presenti tramite captatore informatico. Si tratta, com’è noto, di un sistema che consente da remoto la captazione di immagini e suoni tramite l’inoltro di un malware sul dispositivo bersaglio. Il Legislatore ha atteso oltre dieci anni per regolamentare l’utilizzo del nuovo strumento investigativo mediante l’introduzione del D.lgs 29 dicembre 2017, n. 216. La novella raccoglie diffusamente la “proposta” della “sentenza Scurato”, e solo alcune dei tanti spunti offerti dalla dottrina negli ultimi anni. Al Giudice per le indagini preliminari è affidato il compito di “recuperare” l’effettiva funzione di controllo sul “progetto investigativo” ipotizzato dal pubblico ministero al fine di salvaguardare i valori costituzionali coinvolti dall’utilizzo del mezzo.
Il rapporto tra libertà di informazione e buon andamento della giustizia, con particolare riferimento al processo penale, costituisce una tematica di grande attualità alla luce delle ricorrenti polemiche connesse ai fenomeni degenerativi del c.d. “processo mediatico”. Nel prisma del diritto costituzionale, nella consapevolezza della difficoltà di ricostruire una «carta dei rapporti giustizia-media», emerge la necessità di un’opera di bilanciamento, resa ardua per la pluralità dei principi e dei valori coinvolti. In questo senso, l’analisi della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo risulta fondamentale, anche in una prospettiva di possibili innovazioni legislative. Infatti, una recente direttiva dell’Unione europea (2016/343/UE) che dovrà essere attuata entro il 1 giugno 2018, “recependo” indicazioni provenienti dalla giurisprudenza EDU, sembra ormai attestare un’interpretazione estensiva della presunzione di innocenza, da garanzia destinata ad operare non soltanto sul piano processuale a diritto della personalità, ovvero diritto a non essere presentato come colpevole prima che la responsabilità sia stata legalmente accertata.
Lo scritto fornisce una illustrazione critica delle norme che regolano la segretezza e i limiti di pubblicazione degli atti processuali penali. La ricognizione è condotta alla luce dei problemi che l’esperienza italiana lascia affiorare attualmente. I delicati problemi connessi con l’intreccio di interessi in gioco (riservatezza individuale, tutela dell’indagine, fairness processuale) fanno da trama all’esposizione. Il paragrafo finale è dedicato a una sintetica prospettazione di immaginabili soluzioni de iure condendo volte a superare le attuali, insoddisfacenti pratiche.
Il presente articolo analizza le principali pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di rapporti tra processo penale e media. Sono quindi, da una parte, identificati i diritti coinvolti e, dall’altra, ricostruite le modalità con le quali questi entrano in conflitto con altri diritti o interessi collettivi. Particolare attenzione è posta sulle modalità con la quale la Corte effettua il bilanciamento tra i diritti e gli interessi contrapposti nei seguenti ambiti: le dichiarazioni alla stampa e le conferenze stampa delle autorità pubbliche in merito a processi penali ancora pendenti; la trasmissione alla stampa da parte delle autorità pubbliche di immagini di persone indagate; le fughe di notizie relative ad atti di indagine.