La locuzione “se dichiarato fallito”, tipizzata in seno alle fattispecie di bancarotta prefallimentare, da più di mezzo secolo costituisce l’oggetto di un’accesa, intensa e sempre più attuale querelle interpretativa, insorta tra una giurisprudenza (che era) granitica e una dottrina (quasi) altrettanto monolitica, che sebbene in netta contrapposizione sul punto, appaiono entrambe lontane dal rispetto degli standard costituzionali. Il ruolo svolto dalla sentenza dichiarativa di fallimento nelle ipotesi di bancarotta prefallimentare, infatti, costituisce, a oggi, un dilemma tutt’altro che risolto. Lo scopo del presente contributo è da identificarsi nel tentativo di ricostruire l’iter storico e logico-argomentativo dei due indirizzi elaborati in proposito, così da addivenire, laddove possibile, alla proposta di istanze che quanto meno possano prospettare un ritorno alla necessaria sussistenza del nesso di causalità e del giudizio di rimproverabilità a titolo personale anche per le fattispecie in materia fallimentare. È la Costituzione, d’altronde, a imporlo.
La pubblicazione della nota "sentenza Corvetta" ha riaperto annosi dubbi e divergenze d'opinione sul ruolo assunto dalla sentenza di fallimento nella struttura dei reati di bancarotta, nonché sulla connessa legittimità costituzionale delle fattispecie basate su di una rilevanza oggettiva di tale elemento. Dall'analisi di quella pronuncia, nonché dal conseguente dibattito dottrinale e, soprattutto, dalle successive prese di posizione della giurisprudenza emerge un quadro di perdurante incertezza interpretativa, tale da porre in dubbio la possibilità di apprezzare un effettivo grado di "tassatività" e "ragionevolezza" dell'attuale disciplina legislativa.
È opinione condivisa che il sistema delle procedure concorsuali italiano, attraverso le riforme succedutesi negli ultimi anni, guardi agli Stati Uniti quale modello, quantomeno ideale, di riferimento. Si è, dunque, deciso di indagare il microcosmo penale-fallimentare statunitense, evidenziandone similitudini e divergenze rispetto al paradigma nazionale, al fine di cogliere eventuali spunti che possano condurre a una revisione interpretativa delle fattispecie di bancarotta, immutate (e forse immutabili) all’interno di un contesto in continua evoluzione.
A circa due anni dall'entrata in vigore della novella che ha introdotto il reato di “Falso in attestazioni e relazioni” con l'art. 236-bis della Legge Fallimentare, giunge la prima pronuncia (edita) sul tema. Si tratta di un'ordinanza interdittiva, emessa in una cornice fattuale da “caso limite” per la macroscopica tipicità delle condotte contestate: i fatti ad oggetto rendono la pronuncia di particolare interesse, specie se letta all'interno della cornice creata dalla giurisprudenza fallimentare sul tema delle attestazioni e delle relazioni del professionista, nonché dalla pubblicazione da parte del Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili dei “Principi di attestazione dei piani di risanamento”. Un nuovo “caso Busiello”, di cui ci si è proposto di analizzare dati fattuali, percorsi motivazionali dell'estensore, nonchè possibili termini di applicazione futura dei dicta, specie in materia di prova del dolo. Alla ricerca quindi di un corretto inquadramento sistematico di una norma purtroppo mal scritta, dal contenuto potenzialmente deflagrante per tutto il sistema delle soluzioni concordate della crisi d'impresa.
Giurisprudenza e dottrina sono storicamente divise sul ruolo da assegnare alla dichiarazione giudiziale d’insolvenza rispetto ai delitti di bancarotta. Le Corti annoverano la sentenza dichiarativa di fallimento tra gli elementi costitutivi del reato, senza però trarne tutte le implicazioni di carattere sistematico e giungendo talvolta a risultati interpretativi eccentrici. L’impostazione prevalente in dottrina, secondo cui il fallimento è condizione obiettiva di punibilità, non soltanto risulta più coerente sotto il profilo dogmatico, ma a ben vedere si sottrae anche alle possibili criticità concernenti l’individuazione del tempus e del locus commissi delicti.
Prendendo occasione dai passi conferenti della sentenza sul caso Parmalat-Capitalia, lo scritto ripercorre la struttura della fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria societaria di cui all’art. 223, cpv., n. 2 legge fall. e si prefigge lo scopo di evidenziarne i punti di criticità, i nodi esegetici irrisolti ed il ruolo nel generale contesto del diritto penale delle procedure concorsuali.
Nel tentativo di allineare la risposta sanzionatoria in materia penale alla rinnovata centralità del ruolo assunto dal professionista attestatore nell’ambito delle diverse procedure di composizione negoziale della crisi d’impresa, la nuova fattispecie di falso in attestazioni e relazioni di cui all’art. 236-bis l. fall. sembra riproporre problemi già noti in ambito penal-societario, peraltro accentuati da una formulazione più asciutta di quella che notoriamente caratterizza i reati di false comunicazioni sociali: in particolare, rispetto alle valutazioni sulla fattibilità dei piani occorre limitare il giudizio di falsità ad un livello di manifesta irragionevolezza qualificata dallo scostamento del percorso logico-argomentativo dalle regole tecniche metodologicamente indiscusse e dalle best practices di riferimento, espungendo dall’incriminazione i casi di semplice negligenza senza incorrere nell’ennesimo abuso della figura del dolo eventuale.
La recente introduzione dell’art. 236-bis l.f., ove si punisce il delitto di “falso in attestazioni e relazioni”, offre uno spunto di riflessione sulla responsabilità penale del professionista nell’ambito delle soluzioni concordate per le crisi da sovraindebitamento e sul rapporto tra i delitti di bancarotta e gli altri reati fallimentari.