Partendo dal sostanziale fallimento della politica criminale in materia di stupefacenti, l’articolo esamina le vie battute nel nostro ordinamento per ridimensionare l’area di rilevanza penale dei fatti aventi ad oggetto droghe ‘leggere’. Dall’analisi, emerge un quadro a due facce: da un lato, l’incapacità del legislatore di riformare l’attuale disciplina sul contrasto agli stupefacenti; dall’altro, la tendenza di certa giurisprudenza a escludere conseguenze penali per i fatti caratterizzati da minima pericolosità. Nel contributo, si argomenta che la soluzione esclusivamente giurisprudenziale, per quanto benefica, non sia sufficiente né in termini di certezza normativa, né in termini di efficace lotta al narcotraffico.
Tre nuove rimessioni alla Corte costituzionale, da parte di due giudici di merito e della Corte di cassazione, mirano a far dichiarare l’illegittimità del minimo edittale pari a otto anni di reclusione previsto dall’art. 73, comma primo, d.P.R. 309/1990 nel testo di legge risultante dalla nota sentenza n. 32/2014 della Consulta. Il contributo prende spunto dall’esame di queste tre ordinanze per una riflessione sulle annose questioni relative alla sindacabilità delle c.d. norme penali di favore e al controllo di legittimità sulla misura della pena; e, in relazione a tale secondo tema, prospetta la possibilità di un sindacato che prescinda dalla determinazione di un tertium comparationis in senso classico, nello spirito della recentissima sentenza n. 236/2016 della Corte costituzionale. Messe in luce l’irragionevolezza, la disuguaglianza e la sproporzione che caratterizzano l’attuale sistema sanzionatorio dei reati in materia di stupefacenti – il quale prevede un saltum pari a quattro anni di reclusione a fronte di uno spettro continuo di condotte a gravità crescente –, si individua nella pena di quattro anni di reclusione – id est il massimo edittale di pena per i fatti di lieve entità – non tanto un tertium comparationis, bensì l’unico riferimento normativo in grado di garantire una soluzione ‘a rime obbligate’.
La presente riflessione, partendo dall’analisi delle perplessità ermeneutiche da sempre suscitate dalla circostanza aggravante della “ingente quantità” di stupefacenti, si incentra sul lungo cammino interpretativo compiuto dalla giurisprudenza allo scopo di superare i dubbi di costituzionalità sollevati dalla disciplina dettata dall’art. 80, co. 2. d.P.R. n. 309/1990 e di perimetrarne la portata applicativa, per poi giungere agli ulteriori interrogativi che tali arresti giurisprudenziali hanno generato, senza trascurare le ultime prese di posizione della Corte di Cassazione, rese necessarie dall’intervenuto mutamento del quadro normativo in materia di sostanze droganti.
Gli Autori, in un commento ‘a prima lettura’ della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di talune importanti disposizioni della legge cd. “Fini Giovanardi”, ne indagano gli effetti immediati – consistenti nella ‘caducazione’ della fonte impugnata, inclusi gli effetti abrogativi di quest’ultima, e nella conseguente reviviscenza della disciplina previgente – e ne ripercorrono le implicazioni dal punto di vista intertemporale. L’analisi mette in luce, altresì, l’importanza della citata pronuncia nella sistematica della giurisprudenza costituzionale, evidenziandone in particolare la rilevanza sul versante della giustiziabilità del principio della riserva di legge in materia penale, anche alla luce degli obblighi di penalizzazione ‘eurounitari’.