Il commento trae spunto dalla recente pronuncia della Corte di Cassazione 12 gennaio 2016, n. 890, nella quale si è deciso per l’immutata rilevanza penale delle false valutazioni, anche a seguito delle novità introdotte dalla legge n. 69 del 2015 alla fattispecie di cui all’art. 2621 c.c. La Corte, vagliando la questione a più livelli interpretativi, ribalta la soluzione accolta nel suo primo intervento sul tema. Nel contributo, dopo l’analisi dei più significativi passaggi della pronuncia sulla questione principale, la riflessione si incanala su un binario ulteriore, considerando i possibili effetti derivanti dalla lettura offerta dalla Corte in tema di “materialità”, “rilevanza” e criteri di stima del falso valutativo.
La recente legge sulle false comunicazioni sociali sembra essere il risultato della consapevolezza, da parte del legislatore, dell’importanza di un ambiente favorevole al fare impresa, che costituisce un obiettivo da perseguire sovraordinato alla protezione del risparmio in quanto funzionale allo sviluppo dell’economia. In quest’ottica, è possibile interpretare l’utilizzo dell’espressione “fatti materiali non rispondenti al vero” e l’eliminazione del riferimento alle valutazioni in precedenza contenuto nel testo oggi riformato. Il ricorso ai fondamenti economici consente di spiegare razionalmente la diversità di previsioni tra le società quotate e non quotate.
Il commento muove dalla recentissima pronuncia della V Sezione della Corte di Cassazione, che – smentendo l’arresto della sentenza Giovagnoli (Cass., Sez. V, 12 gennaio 2016, n. 890) – torna a sostenere l’irrilevanza penale del falso in bilancio ‘valutativo’. L’Autore analizza gli argomenti interpretativi posti a fondamento dei contrapposti orientamenti esegetici per vagliarne la plausibilità e la persuasività, nella prospettiva di una ormai quasi inevitabile rimessione della questione alle Sezioni Unite. Sono messe in luce, in particolare, le amplissime potenzialità interpretative che offre la “lettera della legge” e che concedono al giudice penale spazi di discrezionalità che stridono con i corollari del principio di legalità.
La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione in tema di mendacio "valutativo" rappresenta un significativo banco di prova per le fattispecie di false comunicazioni sociali, riformate con l. 69/2015. La questio iuris sottoposta dalla Sezione rimettente è risolta all'esito di un condivisibile percorso interpretativo e argomentativo, che ha inteso salvaguardare la tenuta del sistema senza mettere in discussione il canone giuspenalistico di legalità. Le Sezioni Unite si soffermano altresì su ulteriori aspetti problematici della nuova disciplina penale a presidio dell'informazione societaria, nel complesso caratterizzata da non pochi profili controversi.
Il conflitto sul falso valutativo, conseguente alla riforma del 2015 e alla mancanza di una ermeneutica del legislatore, ha posto in rilievo problemi cruciali dell’interpretazione di norme penali, fra gli opposti rischi del feticismo della lettera e di creatività giurisprudenziale. La sentenza delle Sezioni Unite, che ha risolto il conflitto con l’affermazione della persistente rilevanza penale, ha ricostruito il significato del nuovo testo normativo alla luce della storia e di criteri di ragionevolezza ermeneutica.
Nell’ordinamento statunitense, si assiste alla progressiva estensione, agli enti collettivi, di procedimenti di diversione i quali sono diventati, oggi, lo strumento privilegiato per fronteggiare la criminalità d’impresa; tanto che anche il Regno Unito ha, di recente, introdotto una disciplina ah hoc. Tale è la pervasività della giustizia dilatoria che la stessa ha finito per stravolgere i regimi di corporate liability vigenti nei sistemi di area anglo-americana, fornendo al contempo spunti comparativi anche in prospettiva di riforma del d. lgs. n. 231 del 2001.
La l. n. 69/2015 ha incisivamente modificato le fattispecie di false comunicazioni sociali previste dagli artt. 2621 e 2622 c.c., con una netta inversione di tendenza rispetto alla riforma della previgente disposizione incriminatrice ex art. 2621 c.c., attuata nel 2002. Sebbene la tecnica normativa impiegata dal legislatore susciti svariate perplessità sul piano redazionale, un’interpretazione sistematica delle nuove norme potrebbe scongiurare il rischio di ineffettività delle stesse. Problematica è altresì l’individuazione dell’esatta portata delle previsioni di favore contenute negli artt. 2621-bis e 2621-ter c.c., che si riverberano su un trattamento sanzionatorio nel complesso coerente.
La sentenza in commento costituisce il primo caso di condanna per fatti riconducibili alla fattispecie di «infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità», ora denominata «corruzione tra privati». La vicenda sottoposta all’attenzione del Tribunale di Udine, benché non sollevi di per sé questioni ermeneutiche di particolare problematicità, acquisisce speciale rilevanza proprio in ragione della sua eccezionalità ed offre l’occasione per formulare ampie osservazioni critiche sulla disfuzione applicativa dell’art. 2635 c.c. Quest’ultima, in effetti, è principalmente addebitabile alle distonie tra la formulazione accolta dal legislatore italiano e le numerose sollecitazioni extranazionali in materia, alle quali anche la legge n. 190/2012 è riuscita a dare solo una timida e parziale trasposizione. Neppure la modifica del regime di procedibilità di cui al 5° comma, evocativa del modello concorrenziale tedesco di incriminazione della corruzione privata, pare idonea ad ampliare sensibilmente lo spettro applicativo della norma, i cui profili offensivi risultano ancora canalizzati in ottica patrimonialistica interna.