Mettere in relazione concetti riferiti al processo penale e al diritto penale materiale offre una prospettiva interessante e non debitamente esplorata. È possibile che l’idea che il diritto processuale sia un mero strumento di esecuzione del diritto penale sostanziale debba essere rivisitata. Ci sono buone ragioni per ritenere che l’evoluzione della dogmatica penalistica e del sistema di teoria del reato sia stata guidata, in maniera rilevante se non in modo esclusivo, dalla necessità di agevolare il raggiungimento di un certo standard probatorio nel sistema di imputazione. I successivi mutamenti nelle ricostruzioni che la scienza penale ha fornito rispetto a concetti come dolo, autore, limiti dell’omissione, crisi della causalità e sviluppo dell’imputazione oggettiva – e alcuni altri – hanno avuto come conseguenza, che è improbabile sia casuale, una facilitazione dell’accertamento processuale. Se questa diagnosi è corretta, si apre un interessante dibattito sul fondamento etico di questa evoluzione.
Il Buon Senso ha un ruolo pervasivo nel giudicare il comportamento e le intenzioni altrui. Come affermato da accreditata dottrina, la nostra comprensione dell'altro è fortemente influenzata da postulati su "come gira il mondo". La giurisprudenza ha condiviso questo punto di vista utilizzando questi postulati, attraverso lo strumento delle massime di esperienza, nella motivazione. E se in realtà il Buon Senso fosse tutt'altro che buono? Questo articolo analizza le ricadute in termini di false confessioni di tre errate affermazioni di Buon Senso: nessuno mente contro il proprio interesse; gli esseri umani riescono a riconoscere la menzogna e questa capacità può essere allenata; individui sani non generano ricordi falsi. Sfatando questi miti lo scopo è denunciare la fragilità del ragionamento giudiziale in ambito di confessione. L'ultima parte del testo analizza il caso del "Canaro della Magliana" allo scopo di evidenziare le fallacie che hanno caratterizzato la genesi e la valutazione della confessione del condannato
Il lavoro intende riflettere su una serie di questioni relative ai procedimenti sanzionatori amministrativi nel diritto cileno. In particolare si interroga sull’applicabilità dei principi del giusto processo in questa materia e sui limiti di tale applicabilità, soffermandosi quindi sul tema dello standard della prova per l’imposizione di sanzioni amministrative e sui rimedi giudiziali contro sentenze definitive pronunciate in questo ambito.
L’articolo analizza l’uso, nel processo penale cileno, di dichiarazioni rese da persone incolpate nell’ambito di procedimenti sanzionatori amministrativi e, in generale, in contesti istituzionali che non sono soggetti alle regole sulla tutela dell’autonomia dell’imputato caratteristiche del processo penale, e che non assicurano la volontarietà della dichiarazione, il cui rifiuto è anzi penalmente sanzionato.
Il contributo analizza l’incidenza del canone di proporzione in rapporto alle nuove tecnologie di sorveglianza occulta sempre più di frequente impiegate nel contesto dell’indagine penale, prendendo dapprima in esame il contesto normativo e giurisprudenziale esistente a livello sovranazionale per poi soffermarsi sull’ordinamento italiano, esaminando infine talune criticità determinate da un ricorso al canone che non pare sempre assistito da adeguata consapevolezza.
L’autore, passate in rassegna le differenti tipologie di confisca presenti nell’ordinamento italiano, e soffermatosi con particolare attenzione su quelle c.d. per sproporzione, analizza i differenti requisiti per applicare le differenti tipologie di. Dall’analisi emerge la tendenza da parte del legislatore di svincolare sempre di più l’accertamento dalla applicazione della misura ablatoria; simile tendenza, però, rischia di avere ripercussioni negative proprio sulla presunta efficacia del nuovo paradigma punitivo fondato sulla confisca.
Il nuovo volto della criminalità organizzata ha posto i sistemi d’indagine tradizionali in grave difficoltà, evidenziando “l’incapacità investigativa” delle Autorità Giudiziarie di contrastare, in maniera efficace, il traffico di droga e la cessione di materiale pedopornografico attraverso il web. Solo con il ricorso alle indagini informatiche gli organi investigativi sono posti in condizione di ricercare ed assicurare il dato probatorio. Il nuovo orizzonte investigativo è rappresentato dalle intercettazioni di comunicazioni tra presenti tramite captatore informatico. Si tratta, com’è noto, di un sistema che consente da remoto la captazione di immagini e suoni tramite l’inoltro di un malware sul dispositivo bersaglio. Il Legislatore ha atteso oltre dieci anni per regolamentare l’utilizzo del nuovo strumento investigativo mediante l’introduzione del D.lgs 29 dicembre 2017, n. 216. La novella raccoglie diffusamente la “proposta” della “sentenza Scurato”, e solo alcune dei tanti spunti offerti dalla dottrina negli ultimi anni. Al Giudice per le indagini preliminari è affidato il compito di “recuperare” l’effettiva funzione di controllo sul “progetto investigativo” ipotizzato dal pubblico ministero al fine di salvaguardare i valori costituzionali coinvolti dall’utilizzo del mezzo.