Il contributo analizza l’incidenza del canone di proporzione in rapporto alle nuove tecnologie di sorveglianza occulta sempre più di frequente impiegate nel contesto dell’indagine penale, prendendo dapprima in esame il contesto normativo e giurisprudenziale esistente a livello sovranazionale per poi soffermarsi sull’ordinamento italiano, esaminando infine talune criticità determinate da un ricorso al canone che non pare sempre assistito da adeguata consapevolezza.
L’autore, passate in rassegna le differenti tipologie di confisca presenti nell’ordinamento italiano, e soffermatosi con particolare attenzione su quelle c.d. per sproporzione, analizza i differenti requisiti per applicare le differenti tipologie di. Dall’analisi emerge la tendenza da parte del legislatore di svincolare sempre di più l’accertamento dalla applicazione della misura ablatoria; simile tendenza, però, rischia di avere ripercussioni negative proprio sulla presunta efficacia del nuovo paradigma punitivo fondato sulla confisca.
Il nuovo volto della criminalità organizzata ha posto i sistemi d’indagine tradizionali in grave difficoltà, evidenziando “l’incapacità investigativa” delle Autorità Giudiziarie di contrastare, in maniera efficace, il traffico di droga e la cessione di materiale pedopornografico attraverso il web. Solo con il ricorso alle indagini informatiche gli organi investigativi sono posti in condizione di ricercare ed assicurare il dato probatorio. Il nuovo orizzonte investigativo è rappresentato dalle intercettazioni di comunicazioni tra presenti tramite captatore informatico. Si tratta, com’è noto, di un sistema che consente da remoto la captazione di immagini e suoni tramite l’inoltro di un malware sul dispositivo bersaglio. Il Legislatore ha atteso oltre dieci anni per regolamentare l’utilizzo del nuovo strumento investigativo mediante l’introduzione del D.lgs 29 dicembre 2017, n. 216. La novella raccoglie diffusamente la “proposta” della “sentenza Scurato”, e solo alcune dei tanti spunti offerti dalla dottrina negli ultimi anni. Al Giudice per le indagini preliminari è affidato il compito di “recuperare” l’effettiva funzione di controllo sul “progetto investigativo” ipotizzato dal pubblico ministero al fine di salvaguardare i valori costituzionali coinvolti dall’utilizzo del mezzo.
Il contributo affronta il tema dell’utilizzo di evidenze epidemiologiche ai fini della prova del nesso causale con riferimento alle offese alla salute ed alla vita tipizzate nei nuovi delitti ambientali introdotti nel codice penale dalla legge n. 68 del 2015. L’attenzione è focalizzata, in particolare, sugli artt. 452-ter (morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale) e 452-quater (disastro ambientale). Dopo avere fornito una serie di indicazioni di taglio esegetico, evidenziando al contempo i numerosi profili di criticità che contrassegnano tali disposizioni sotto il profilo del drafting legislativo e della dosimetria sanzionatoria, l’autore si sofferma sui profili probatori al metro delle misure epidemiologiche del “rischio relativo” e del “numero attribuibile”, confrontandosi con le diverse posizioni che ad oggi si sono affacciate in dottrina e giungendo alla conclusione secondo cui tali misure possono, a certe condizioni, fornire evidenze utili ai fini della prova delle offese tipiche non solo dei delitti ambientali, ma anche delle fattispecie di omicidio e lesioni personali.
Il rapporto tra teoria della probabilità e diritto delle prove penali affonda le proprie radici nella storia della giustizia penale. Il dibattito scientifico degli ultimi decenni ha tuttavia messo a fuoco la necessità di un maggiore approfondimento di questa stretta relazione, soprattutto in chiave di irrobustimento della razionalità del giudice moderno. L’irrompere della prova del Dna nelle aule di giustizia pone oggi nuovi interrogativi e induce a guardare con occhi meno scettici le recenti elaborazioni in materia di logica della probabilità e dogmatica del processo.
È difficile cogliere a pieno le future ripercussioni dell’ordine europeo di indagine penale sul nostro sistema. Già si intravede, nondimeno, una parte più rassicurante della nuova disciplina, laddove la direttiva 2014/41 assicura la salvaguardia delle regole nazionali di ammissibilità degli atti istruttori, ed una, invece, più preoccupante, relativa alle modalità di raccolta delle prove. La direttiva non garantisce, a quest’ultimo riguardo, che tutte le norme interne saranno rigorosamente osservate. Ma qui viene in soccorso il principio di proporzionalità previsto dall’art. 52 § 1 della carta di Nizza, mirato ad assicurare un ragionevole bilanciamento fra la conservazione delle garanzie nazionali e il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione, a pena dell’inutilizzabilità delle prove raccolte. Non è un antidoto infallibile. Ma in un sistema giuridico globalizzato che ha perso la guida delle tradizionali fattispecie legislative, esso perlomeno postula l’onere di motivare qualunque allontanamento dai nostri standard. La speranza è che ne derivino regole probatorie che, per quanto di matrice giurisprudenziale, risultino sufficientemente equilibrate e prevedibili nel loro esito, così come esige il principio di legalità processuale.
Il contributo evidenzia le linee di un nuovo garantismo inquisitorio idealmente tracciate da una recente sentenza delle Sezioni Unite (Cass., Sez. un., 26 Marzo 2015, n. 33583, Imp. Lo Presti), che, ponendo fine a un lungo contrasto giurisprudenziale, ha sancito l'inutilizzabilità dell'esame ex art. 210, comma 6, c.p.p. svoltosi senza la previa formulazione dell'avvertimento stabilito all'art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., pur salva la possibilità di rinnovarlo validamente seguendo gli avvertimenti di rito. Questa soluzione viene criticata dall'A.: ad un'errata messa a fuoco sulla platea dei soggetti dichiaranti cui effettivamente applicarsi l'art. 210, comma 6, c.p.p. si cumula una lettura non convincente, e, anzi, parzialmente abrogativa, in ordine alla portata sanzionatoria dell'art. 64, comma 3-bis, c.p.p.. Unitamente ad ulteriori osservazioni sul contenuto della summenzionata pronuncia di legittimità, l'A. formula osservazioni di carattere generale riguardanti l'istituto della testimonianza assistita, evidenziandone tanto il reale significato dogmatico (di matrice inquisitoria) quanto il cortocircuito strutturale determinato dall'opaca e malcostruita disciplina dell'art. 210, comma 6, c.p.p..
Il presente contributo offre un’ampia panoramica sullo strumento investigativo dei tabulati di traffico, recanti i dati esteriori delle comunicazioni telefoniche e telematiche, passando in rassegna gli approdi più significativi del formante giurisprudenziale e dottrinale. Tale mezzo di ricerca della prova si colloca al centro dell’incessante dibattito sulla natura dei dati esteriori, che vede contrapposte istanze di repressione del fenomeno criminale e garanzie individuali a rilevanza costituzionale. L’attuale disciplina normativa è il risultato di una lunga evoluzione storica che, nel tentativo di operare un bilanciamento tra interessi antagonisti, ha dovuto contemperare le esigenze operative degli organi inquirenti e il fondamentale diritto alla privacy, tutelato dalle fonti sovranazionali convenzionali ed eurounitarie.
L’articolo affronta la problematica delle indagini informatiche in una prospettiva generale, individuandone le costanti che prescindono da una specifica normativa nazionale. Ne emergono tre tipologie di cyber investigations (preventive, preliminari e proattive), che contribuiscono a delineare un sistema penale sempre più preventivo e proattivo. Inoltre, con un’inversione di prospettiva rispetto all’impostazione tradizionale della dottrina, anziché soffermarsi sulle caratteristiche degli elementi di prova digitale, l’autrice si concentra sulle caratteristiche (tecnicità, transnazionalità, collaborazione con soggetti terzi) che presentano gli atti investigativi volti alla raccolta degli elementi di prova digitali, le quali sembrano determinare una sorta di mutazione genetica della stessa attività di indagine. Da ultimo, l’articolo identifica nelle indagini automatizzate una nuova importante sfida e ne propone una bipartizione volta a ricondurne l’assetto al quadro del rispetto dei diritti fondamentali.
Prendendo spunto dall’acceso dibattito che ha animato gli interpreti a proposito della duplicazione delle sanzioni, in sede penale ed amministrativa, viene da domandarsi se, sul piano dell’accertamento del fatto, le garanzie tipiche della giurisdizione penale debbano essere attuate anche nel procedimento sanzionatorio extrapenale. Si pensi in particolare al principio del contraddittorio, inteso come metodo di partecipazione dialettica alla formazione della prova, in grado di assicurare il miglior risultato possibile in termini di qualità dell’accertamento, nonché come componente fondamentale del diritto di difesa dell’accusato. Occorre comprendere se il riconoscimento del principio nei procedimenti “ispettivi” (della specie, ad esempio, di quelli condotti dalla Banca d’Italia o dalla Consob), debba ritenersi imposto alla luce del sistema delle fonti non soltanto interne di rango costituzionale, ma anche sulla base dei vincoli di natura sovranazionale derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Del resto, se proprio dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo viene riconosciuto che la sanzione applicata all’esito del procedimento extrapenale, possa avere natura sostanzialmente penale, non si giustifica un approccio meno garantistico – rispetto a quello del processo penale – nell’accertamento del fatto.