La riforma del diritto societario del 2003 ha modificato gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, attribuendo a questi ultimi natura costitutiva. Secondo i primi arresti giurisprudenziali, si tratterebbe di un istituto equiparabile alla morte della persona fisica, sicché la cancellazione di società imputata per un reato previsto dal d.lgs. 231/2001 darebbe luogo a una causa estintiva della responsabilità. Ad un attento esame della materia, tuttavia, tale conclusione appare irragionevole, in quanto sprovvista di un sicuro ancoraggio normativo e dogmatico. Pertanto, pur suggerendosi la necessità di un intervento legislativo, l’autore propone una interpretazione correttiva, in modo da evitare che la cancellazione sia impiegata per eludere il regime punitivo delineato dal d.lgs. 231/2001.
O texto explora a maneira como a literatura e a jurisprudência, na Itália, tratam as exigências do interesse e vantagem, necessárias para responsabilizar a pessoa jurídica em decorrência de crimes. Pontua, ainda, diferenças relativas aos modelos de imputação e à natureza da responsabilidade do ente coletivo quando comparadas as normativas italiana e brasileira. Por fim, verifica em que aspectos as conclusões de direito comparado são aplicáveis para a correta interpretação do art. 3º da Lei 9.605/98, no tocante aos critérios do interesse e benefício do ente coletivo, exigidos para seja responsabilizado penalmente por crimes ambientais.
Qual è la misura del profitto confiscabile, e con quali criteri deve essere effettuata la relativa valutazione da parte del giudice penale? Questa la domanda centrale oggetto del presente contributo, che offre un prezioso quadro comparato delle soluzioni – tutt’altro che univoche e definitive – cui sono pervenute sinora le massime giurisdizioni tedesca e italiana, in particolare con riguardo alla determinazione del profitto confiscabile a carico delle imprese i cui dirigenti abbiano ottenuto la stipulazione di un contratto tramite un’attività delittuosa (ad es. mediante corruzione dei pubblici funzionari preposti all’aggiudicazione di un appalto). Con riguardo alla situazione tedesca, l’autore ricostruisce nel dettaglio, a beneficio del lettore italiano, la normativa codicistica in materia di confisca (Verfall) di cui ai §§ 73 e ss. StGB, che si estende, secondo la normativa vigente, a tutto ciò (letteralmente, a “qualsiasi cosa che”) che l’autore o il partecipe abbia ricavato per la, ovvero dalla commissione di un fatto antigiuridico: formula generica, questa, con la quale il legislatore del 1992 intendeva chiaramente orientare l’interprete verso l’adozione del c.d. “Bruttoprinzip”, o “principio del lordo”, in contrapposizione alla situazione normativa preesistente che imponeva la confisca del “profitto patrimoniale” ricavato dal reato. Nell’ipotesi in cui l’autore abbia agito (anche senza formale investitura) per conto di un terzo, e in particolare di un’impresa, la confisca dovrà essere disposta nei confronti di quest’ultima, che potrà esercitare il proprio diritto di difesa nell’ambito del medesimo processo penale celebrato contro l’imputato-persona fisica (in un sistema, si rammenti, che non prevede una formale responsabilità penale della persona giuridica). Così fissate le coordinate normative, l’autore evidenzia come la definizione dell’oggetto della confisca (ossia del quantum confiscabile) sia tuttora oggetto di interpretazioni contrastanti in seno alla stessa giurisprudenza tedesca di legittimità. Vengono qui analizzate, in particolare, due recenti sentenze, rispettivamente della quinta e della prima sezione della Cassazione federale tedesca (Bundesgerichtshof). Nella prima, relativa a un caso di corruzione che aveva consentito a un’impresa di aggiudicarsi un appalto con la pubblica amministrazione relativo alla costruzione di un impianto inceneritore di rifiuti del valore di circa 792 milioni di euro, il Bundesgerichtshof statuì il principio secondo cui in casi siffatti ciò che l’impresa “ricava dal” fatto antigiuridico (la corruzione) è lo stesso ottenimento dell’appalto, e non già il prezzo concordato per la sua esecuzione. Oggetto della confisca è, allora, il valore economico complessivo dell’appalto al momento della conclusione del contratto; valore che deve essere stimato principalmente in relazione al profitto che l’impresa si attendeva in quel momento, secondo i propri calcoli di guadagno. Nel caso di specie, l’impresa aveva calcolato di ricavare dal contratto un profitto di 8-9 milioni di euro, profitto che venne in effetti conseguito in via provvisoria dall’impresa; essendo tuttavia stata costretta a prestare una serie di garanzie supplementari nel corso dei lavori, l’impresa finì in concreto per sopportare costi addirittura superiori, seppur di poco, ai 792 milioni di euro complessivamente percepiti quale corrispettivo dell’appalto. In queste condizioni, il Bundesgerichtshof ritenne che non vi fossero i presupposti per procedere ad alcuna confisca ex §§ 73 ss. StGB, se non già per mancanza di un quantum confiscabile, almeno per evitare un´iniqua asprezza della confisca nel caso concreto (§ 73c StGB) nei confronti di un’impresa che nel frattempo era addirittura fallita. Nella seconda pronuncia, relativa a un caso di pubblicità ingannevole tramite cataloghi inviati via posta a clienti anziani, i quali avevano poi effettivamente ordinato merci contro bonifici per un valore complessivo di circa 54 milioni di euro - di cui rispettivamente 32 milioni, 1,7 milioni e 670.000 euro circa confluiti sui conti delle tre società coinvolte nel processo penale celebratosi in Germania contro le persone fisiche che avevano commesso il fatto -, il Bundesgerichtshof affermò il principio secondo cui ciò che le società in questione avevano “ricavato dal fatto antigiuridico” non era stata semplicemente la conclusione dei contratti, ma anche le somme effettivamente corrisposte dai clienti in esecuzione degli stessi, somme che pertanto – nella misura in cui effettivamente erano pervenute alle varie società coinvolte – furono integralmente sottoposte a confisca. Nonostante i tentativi compiuti dalla prima sezione per negare l’esistenza di un contrasto con la precedente pronuncia della quinta sezione e per sottrarsi, conseguentemente, all’obbligo di sottoporre la questione alle sezioni unite del Bundesgerichtshof , le due sentenze appaiono ad avviso dell’autore difficilmente conciliabili, ed evidenziano pertanto lo stato di incertezza in cui versa il diritto d’oltralpe su questo delicatissimo tema. Una simile situazione di incertezza, ad avviso dell’autore, caratterizza d’altronde anche il diritto italiano, nonostante la nota sentenza Impregilo della Sezioni unite della nostra Cassazione (2008). Come si ricorderà, in quella pronuncia le Sezioni unite rigettarono espressamente il principio del “netto”, ma affermarono che – quanto meno con riferimento alle ipotesi in cui per effetto dell’attività delittuosa l’autore del reato, ovvero la persona giuridica nell’interesse della quale quegli agisca, abbia ottenuto la stipula di un contratto, poi regolarmente eseguito – il profitto confiscabile è costituito dal “vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale [...] concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente”. Richiamando le perplessità espresse in proposito anche da una parte della dottrina italiana, l’autore evidenzia qui i dubbi applicativi che tuttora circondano la determinazione di tale “effettiva utilità” conseguita dal contraente “danneggiato” dal reato, alternativamente identificata nel valore delle prestazioni così come stabilite nel contratto, ovvero nel valore di mercato delle stesse.
La nostra Rivista è lieta di ospitare qui il contributo di un autorevole civilista, il Prof. Franco Bonelli, che prende spunto da due sentenze di legittimità e una di merito per analizzare la nozione di profitto confiscabile ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 231/2001.Segnaliamo ai lettori che la sentenza del Tribunale di Milano qui esaminata – già pubblicata su Diritto Penale Contemporaneo – è stata nel frattempo parzialmente riformata da Corte d’Appello di Milano, sez. II, 25 gennaio 2012, Pres. Lapertosa, Est. Maiga, ric. Banca Italease S.p.A., parimenti pubblicata sulla nostra Rivista con nota di M. Scoletta, In tema di responsabilità dell’ente per reati societari e profitto confiscabile, 11 aprile 2012. La Corte d’Appello ha nella sostanza confermato il principio di diritto posto a base della statuizione in merito alla confisca dal giudice di prime cure, pur riducendone l’importo complessivo.