La problematica applicabilità del principio di retroattività favorevole alle sanzioni amministrative
Il contributo analizza la sentenza con la quale la Corte costituzionale è recentemente tornata ad occuparsi del problematico rapporto tra il c.d. principio di retroattività favorevole e la disciplina delle sanzioni amministrative. In particolare, si approfondiscono le implicazioni operative della decisione alla luce dell'attuale dibattito sul regime applicabile alle misure afflittive “sostanzialmente penali” al crocevia dei rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento sovranazionale, tentando altresì di delineare delle soluzioni esegetiche alternative, in grado di fornire risposta agli interrogativi lasciati inevasi dalla pronuncia.
Pur rigettando la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 l. n. 689/1981, nella parte in cui non prevede in materia di sanzioni amministrative l'applicabilità del principio della retroattività della norma più favorevole sopravvenuta, la sentenza della Corte costituzionale, 20 luglio 2016, n. 193 pare cionondimeno porre le basi per il definitivo superamento di tale grave limite della citata l. n. 689/1981. Analizzata siffatta pronuncia e il contesto nel quale essa si iscrive, col presente contributo si cercherà di evidenziare per quali ragioni detta sentenza debba intendersi come un monito al legislatore, cui spetta ora rimarginare tale vulnus del nostro sistema sanzionatorio amministrativo.
Con il presente lavoro, si intende proporre, seppur in estrema sintesi, un’analisi delle principali questioni che hanno interessato il recente dibattito circa il rapporto tra il principio di intangibilità del giudicato penale e la tutela dei diritti umani del detenuto, in ragione dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU. L’oggetto di indagine sarà, dunque, limitato alla relazione intercorrente tra il giudicato penale interno e l’incidenza dell’esecuzione della giurisprudenza sovranazionale.
La Corte costituzionale, pur accogliendo, con la sentenza n. 210 del 2013, un incidente sollevato dalle Sezioni unite penali della Corte di cassazione per consentire ai “fratelli minori” di Scoppola di conseguire dal giudice dell’esecuzione la commutazione dell’ergastolo nella pena detentiva di trenta anni di reclusione, mantiene ferma in ogni altro caso la stabilità del giudicato di condanna dinanzi alla sopravvenuta lex mitior. Tuttavia alcune sue recenti decisioni, produttive di uno ius superveniens più favorevole al reo, potrebbero determinare effetti anche in sede esecutiva, alla luce di quanto dispongono gli artt. 136 Cost. e 30 legge n. 87 del 1953.
In seguito all’inserimento del delitto di favoreggiamento personale nell’elenco tassativo dei reati presupposto dell’art. 376 c.p., operato con la l. 94/2009, non è più punibile la ritrattazione del c.d. favoreggiamento-mendacio, anche aggravato ex art. 7, d.l. 152/1991. Nei giudizi ancora pendenti dinanzi alla Suprema Corte, in applicazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole di cui all’art. 2, comma 4 c.p., l’eventuale ritrattazione tempestiva intervenuta in precedenza può ugualmente essere considerata effettiva e determinare la non punibilità del favoreggiamento-mendacio. In tale caso, se risulti già provata nei precedenti gradi di giudizio la sussistenza delle condizioni di fatto della causa di non punibilità di cui all’art. 376 c.p., la Corte può disporre l’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello di condanna ai sensi dell’art. 609, comma 2 c.p.p.