Depoliticizzare il sistema di giustizia penale? Un approccio “istituzionalista” contro il populismo penale

Recensione a R.E. BARKOW, Prisoners of Politics. Breaking the Cycle of Mass Incarceration, Harvard University Press, Cambridge (Ma)-London, 2019, 291 pp.

1. Negli ultimi quarant’anni – è noto – si è consolidato oltre oceano un sistema che incarcera troppo[1], non rieduca, esacerba le diseguaglianze, impone costi spropositati, senza garantire la protezione della sicurezza pubblica. L’indagine, che si propone di fotografare i problemi, individuare le cause e offrire soluzioni, è divisa in tre parti. Nella prima parte, si esaminano le patologie attuali. Il procedimento legislativo corre su binari emotivi, collegati a “etichette fuorvianti”. Alla spettacolarizzazione mediatica dei delitti più eclatanti, segue l’emanazione di disposizioni incriminatrici di estrema severità, che, per la loro ampiezza e difettosa formulazione, divengono “sovra-inclusive”, ricomprendendo tipologie di condotte e/o rei estranee al referente criminologico originario. Paradigmatiche le cd. sex offenses: nell’elettore medio suscitano il riferimento al “modello” di reo più riprovevole, ma abbracciano in realtà una vasta gamma di condotte diversificate. Norme che ricomprendono condotte di gravità diversa, prevedendo sanzioni irragionevolmente eguali, sono disseminate ovunque. Nell’ambito delle drug offenses, non si distingue tra il mero possessore/piccolo spacciatore e il trafficante (ma così anche nelle property offenses, o tra i reati definiti “serious” ai fini della recidiva). In seguito al “cambiamento epocale nella filosofia penale” in senso retributivo (p. 56), il sistema sanzionatorio si è irrigidito – cd. mandatory minimum sentencing – ignorando il dato acquisito secondo cui l’effetto deterrente non dipende dalla severità delle pene. L’inasprimento delle pene ha imposto costi finanziari e umani elevati, smembrando nuclei familiari e comunità, in prevalenza afroamericane (pp. 46-49). Riguardo alle condizioni detentive, si rileva l’insufficienza di programmi rieducativi, concrete opportunità di formazione e professionali, assistenza psicologica, che si risolve in un effetto criminogeno, tale da aumentare la recidiva (pp. 61-67, 69-72). In nome della “certezza della pena detentiva”, si è pressoché eliminato ogni meccanismo di aggiornamento di decisioni precedentemente assunte, sia a livello politico generale, sia a livello individuale giudiziario-esecutivo (cd. second look mechanisms). Lo sdegno dell’opinione pubblica, fomentato da isolati episodi, viene cavalcato politicamente (pp. 76-77). L’indebolimento di tali meccanismi – primo fra tutti il parole – è irrazionale in base all’id quod plerumque accidit e non arreca benefici alla sicurezza pubblica. Le politiche penali si determinano in reazione ad un episodio eccezionale, e resistono poi alla rivalutazione, diversamente da altri settori (sanità, istruzione, trasporti, ambiente), regolati in base all’aggiornamento razionale e all’analisi costi-benefici. Le cd. collateral consequences (p. 88 ss.), accessorie alla condanna, sono straordinarie per varietà tipologica e afflittività (ad es.: impossibilità di beneficiare di sussidi alimentari; finanziamenti agli studenti; esclusione dall’accesso all’edilizia popolare ed al mercato del lavoro). Si tratta di presidi frutto di una scelta politica vendicativa, inidonei a distinguere tra casi concreti, e resistenti al cambiamento, che precludono la risocializzazione. La seconda parte effettua la diagnosi. Si analizzano le politiche populiste tough on crime, iniziate negli anni ’70, in risposta all’aumento del crimine degli anni ’60 (p. 105 ss.), ove interagiscono quattro categorie di “attori”. L’opinione pubblica indirizza il processo politico in senso punitivistico: “la gente teme soprattutto per la propria sicurezza, e la criminalità ne minaccia il senso di sicurezza”; dunque “è recettiva alle politiche securitarie”, perché disinformata e incline a sopravvalutare la minaccia (pp. 106-109). Il bias è accentuato dai Media: l’onnipresenza di notizie su crimini violenti fa sì che “il pubblico spesso creda che i tassi di criminalità siano in crescita, anche quando sono in diminuzione” (p. 107). La classe politica rafforza questa dinamica. Non soltanto conviene ampliare la criminalizzazione e aggravare la pena, ma nell’agone elettorale è letale apparire soft on crime. Il rispetto delle garanzie costituzionali e l’effettivo perseguimento degli scopi del penale, temi “contro-intuitivi”, non sono spendibili. Vi sono poi “gruppi di interesse” che promuovono politiche punitive e resistono alla riforma. Le associazioni dei prosecutors e i Victims’ rights groups, sono “ideologicamente coinvolti”; i sindacati delle forze dell’ordine e le società proprietarie dei penitenziari hanno interesse finanziario a mantenere lo status quo. I cd. criminal justice reformers, cioè le associazioni progressiste (a tutela dei diritti civili e delle minoranze), quelle forensi, ovvero quelle conservative libertarian (per ragioni di spesa-ostilità al cd. Big Government), e i cd. social conservatives (per motivi umanitari-religiosi), non esercitano sufficiente “contrappeso”. I giudici statali eletti, neppure. Anche tra i giudici federali, più indipendenti, non esiste una “visione comune” sulla giustizia penale. Tali dinamiche non sono contingenti, ma costituiscono piuttosto un carattere intrinseco-strutturale della democrazia statunitense. La riforma deve dunque realizzarsi altrimenti (p. 124). Si analizzano i fattori istituzionali che hanno determinato l’incarcerazione di massa (p. 125 ss.). Progressivi mutamenti di struttura istituzionale hanno concentrato nel prosecutor il monopolio dello ius puniendi, incontrollato da parte di altre istituzioni, e prono all’abuso. L’overcriminalization e l’irrigidimento delle pene hanno conferito al prosecutor il potere di scegliere discrezionalmente tra una molteplicità di reati, per sfruttare la “leva negoziale” delle pene draconiane nel cd. plea bargaining. Scomparsi i processi dibattimentali (5% in totale) e le correlate garanzie costituzionali. Il giudiziario non ha posto freno né alle coercizioni nel plea bargaining, né all’eccessività delle pene, né all’esercizio discriminatorio delle scelte di incriminazione (pp. 130-131): “La nuova normalità nell’amministrazione del diritto penale è un regime dominato dai prosecutors, con quasi nessun controllo da parte di giudici e giurie. Il Congresso ed i legislatori statali ora emanano normative per una realtà nella quale il plea bargaining è il modello di base … con pene massime elevate e pene minime fisse per dare ai prosecutors la leva negoziale per indurre patteggiamenti ... un ciclo senza fine nel quale i legislatori continuano ad avere incentivi ad approvare normative eccessive e i prosecutors hanno incentivi per richiederle. E nessun altro attore istituzionale è attualmente disponibile ad interrompere questa dinamica” (p. 132). Ecco l’“intransigenza istituzionale”, che preclude ogni significativa riforma “contenutistica”. A legislatori e pubbliche accuse non interessa cambiare. Il “modello rimediale” dev’essere perciò mutuato ab externo, dal sistema amministrativo-regolatorio. Le agenzie amministrative federali sono sottoposte al controllo di altri organi esecutivi e del potere giudiziario per l’irrazionalità dell’azione rispetto allo scopo. Occorre applicare tale modello di verifica al perseguimento della tutela della sicurezza pubblica da parte delle pubbliche accuse, in rapporto ai costi sostenuti e alle alternative all’incarcerazione (pp. 133-138). La terza parte del volume propone soluzioni istituzionali per depoliticizzare il sistema. Serve limitare i poteri del prosecutor alle funzioni di incriminazione ed esercizio dell’azione penale. Le scelte politiche in tutti gli altri ambiti dovrebbero essere attribuite ad agenzie/commissioni indipendenti. Si suggerisce di applicare alcune misure tratte dalla regulation delle agenzie amministrative (pp. 150-154): ad es. scongiurare che negli uffici di accusa si concentrino nella stessa persona funzioni investigative e requirenti (investigative) e aggiudicative (ad es. formulare l’imputazione, charging, o decidere se accettare o proporre un plea deal); la sottoposizione ad un organo di controllo indipendente; mutuare modelli di corporate compliance. Si descrive poi il recente trend di elezioni locali di district attorneys con programmi cd. smart on crime, nelle comunità più colpite dall’incarcerazione di massa, da police brutality o da wrongful convictions (p. 154-160). Si prefigura una linea razionale, basata su referenti empirici, idonea a garantire la sicurezza pubblica, senza eccessivi costi umani ed economici (v. pp. 160-164). Ma la politicità del contesto richiede ulteriore controllo, da parte di “altri attori istituzionali dotati di pertinenti competenze tecniche e di accesso a dati ed informazioni empiriche per coordinare e supervisionare le politiche in materia di giustizia penale in uno stato o a livello nazionale” (p. 166). Essi dovrebbero coordinare-scrutinare le politiche sulle scelte di incriminazione e sanzionatorie, oggi effettuate di norma dai prosecutors a livello locale, con le spese penitenziarie “esternalizzate” sullo Stato. Utile l’esperienza di diverse Sentencing commissions statali, che hanno “sfruttato le preoccupazioni di spesa dei politici, opponendole agli impulsi ad inasprire le pene”. Occorre estendere oltre al settore del sentencing l’operatività di tali enti “isolati da pressioni politiche” e che sia loro “imposto di stabilire un fondamento empirico per le loro regole e politiche, per spiegare in che modo esse sono coerenti con gli obiettivi di tutela della sicurezza pubblica, e che tali decisioni siano sottoposte a controllo giudiziario”. Organismi esterni dovrebbero verificare “che le politiche siano giustificate in termini di costi-benefici e rispetto a misure egualmente efficaci ma meno costose” (p. 178). Le Corti devono poi rafforzare il judicial review. Le doctrines di garanzia sono sottosviluppate (pp. 187-191). Il settore che richiede più impegno è però quello delle cd. judicial politics, sottese alle nomine dei giudici federali (ed elezioni di quelli statali), trascurato dai criminal justice reformers. Se le questioni della razza, dei diritti civili o dei lavoratori, costituiscono priorità nelle “battaglie” di politica giudiziaria liberal, altrettanto non può dirsi per la questione penale (p. 200). Va modificata la composizione qualitativa del giudiziario, ove i soggetti che hanno svolto la funzione di accusa sono oggi sovra-rappresentati. La diversità nel background professionale dei giudici è essenziale per garantire l’incisività dello scrutinio sugli eccessi di legislatori e prosecutors. Soltanto correttivi istituzionali-strutturali, basati su razionalità e competenza, si sostiene in conclusione, possono interrompere il ciclo di un sistema di giustizia penale altrimenti impermeabile alla riforma: il circuito politico-democratico è intrinsecamente strutturato in modo tale da perpetuare un modello emotivo-irrazionale, che al massimo garantisce neutralizzazione temporanea e retribuzione, ma fallisce nel perseguimento di scopi preventivi.

 

2. I pregi dell’opera sono essenzialmente due. Anzitutto, la metodologia multidisciplinare. L’a., anche se muove da un approccio improntato a razionalità preventiva, esaminando una gran mole di statistiche (criminologiche, economico-finanziarie, sociologiche) che certificano l’inadeguatezza rispetto allo scopo del sistema, non trascura la dimensione normativa del punitivismo, ponendola in rapporto al contesto istituzionale. L’impulso retributivo si perpetua proprio in ragione degli incentivi delle istituzioni democratiche che producono e applicano il penale. Il secondo motivo di apprezzamento è il realismo della proposta. Siccome il quadro politico-istituzionale ostacola riforme di contenuto, occorre rivedere il modo di produzione e applicazione del penale: depoliticizzare il sistema attraverso correttivi esterni già sperimentati nella disciplina amministrativa, basati sulla competenza tecnica e sull’analisi costi/benefici. Certo, è un programma tecnocratico, mosso dalla sfiducia nelle istituzioni rappresentative, quali garanti della razionalità rispetto allo scopo del penale. Dato di fondo, questo, che viene peraltro smentito da altri approcci, come quello del “Movimento per democratizzazione della giustizia penale”[2], o dalle tesi di scienziati politici, che sostengono come la riforma politico-legislativa sia alla portata[3]. La stessa a. riconosce che il progetto è ostacolato dall’imperante scetticismo nei confronti delle competenze, e dalle pulsioni retributive, disinteressate al cambiamento verso un diritto penale utile, e appagate dallo status quo. L’argomento centrale resta però convincente: la maggiore probabilità di ottenere cambiamento attraverso modificazioni istituzionali-strutturali, che non tramite interventi di natura sostanziale, oggi preclusi da un processo politico-legislativo viziato. In prospettiva comparatistica, la lettura offre spunti preziosi. Anzitutto, in opposizione al tanto sbandierato, quanto vacuo, slogan della “certezza della pena”, che, tuttavia, fortunatamente, non sembra potere attecchire qui nei deleteri termini statunitensi. Ciò grazie ai nostri “anticorpi” costituzionali, che vogliono l’intervento penale ragionevolmente limitato rispetto ai tempi di vita delle persone. Indicative, al proposito, le molteplici questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 6, comma 1, lett. b) della l. n. 3/2019 (cd. Spazzacorrotti), il recente indirizzo della Consulta sui regimi penitenziari ostativi, cfr. sent. n. 149/2018, 229/2019, 253/2019, ma anche la “battaglia” promossa dall’UCPI contro l’abolizione della prescrizione, di cui alla stessa l. n. 3/2019. La seconda indicazione riguarda il mantenimento di un giusto equilibrio tra poteri. In Italia, diversamente dagli U.S.A., essi sono sbilanciati a favore del giudiziario (procure e giudici), a causa della perdita di peso del Parlamento. Nonostante questa differenza, la disamina svolta dall’a. circa gli “incentivi” delle istituzioni protagoniste nella produzione e applicazione del penale trova parziale riscontro nel nostro ordinamento. L’interazione opinione pubblica-Media-classe politica spinge verso l’ampliamento del penale e l’inasprimento sanzionatorio. La magistratura – soprattutto requirente – con più fattispecie, di natura indeterminata, e sanzioni severe, cui si ricollega la disciplina processuale, aumenta il proprio potere, che vuole poi mantenere. Quanto alla società civile, l’associazionismo a tutela dei diritti della vittima (o, nei reati “a vittima diffusa”, l’Antimafia, l’Anticorruzione ecc.), esercita un peso nel processo politico superiore a quello dei soggetti che sostengono soluzioni riduttive o razionalizzanti (poche forze politiche, associazioni per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, associazioni forensi ecc.). Le riflessioni, tuttavia, sono condizionate da due fattori. In primo luogo, l’“eccezionalità” dello Stato Carcerario U.S.A., se raffrontata con le altre democrazie occidentali. Sotto questo profilo, l’urgenza della riforma, l’opposizione al populismo, la centralità della “questione penale” nell’arena politica – come “questione per i diritti civili” – sono meno avvertiti nella nostra esperienza. Questo perché (fortunatamente) i costi del sistema sono in effetti qualitativamente e quantitativamente minori, meno percepibili e drammatici. Anche se il penale è ormai ovunque, la gravità delle possibili conseguenze di lungo periodo del nuovo trend punitivo non può essere apprezzata appieno nella società civile, dai non addetti ai lavori. In secondo luogo, le profonde differenze costituzionali e istituzionali tra ordinamenti. Prima fra tutte, la natura politica degli organi di accusa e la discrezionalità dell’azione penale, alle cui degenerazioni si indirizzano principalmente gli interventi suggeriti nel volume, che sono inimmaginabili nel nostro sistema, vista lo statuto costituzionale di indipendenza della magistratura (lo sarebbero anche in caso di separazione delle carriere). Anche la portata garantistica del principio di riserva di legge, più centrale nel nostro assetto ordinamentale – ancorché in profonda crisi – osta ad un programma di accentuata depoliticizzazione. Allora, piuttosto che ricercare soluzioni specifiche, ritentiamo più opportuno recepire il contributo come “monito”. Un’efficace illustrazione delle patologie del populismo penale statunitense e dei suoi effetti nefasti – di tutto ciò che un sistema di giustizia penale giusto e utile non dovrebbe essere – che mette in guardia rispetto alla direzione attuale della politica penale nostrana, la quale ne riprende la retorica e molti degli elementi di fondo, e sollecita una riflessione sui possibili rimedi preventivi, prima che sia troppo tardi[4].

 

 

[1] Oggi, circa due milioni e trecentomila persone sono private della libertà personale, distribuite tra prisons federali e statali, e jails locali. Se si considerano probationers e parolees, oltre sei milioni di persone sono sottoposte a forme di controllo penale. Per statistiche aggiornate e dettagliate, cfr. l’URL https://www.prisonpolicy.org/reports/pie2019.html, ultimo accesso 3 dicembre 2019.

[2] Cfr. J. Kleinfeld, Manifesto of Democratic Criminal Justice, 111 Nw. U. L. Rev. 1367 (2017), ove si gettano le basi per la “democratic criminal justice reform”, in risposta alla burocratizzazione del sistema, che sarebbe stato uno dei fattori più importanti nel creare il “carceral state”, suggerendo un maggiore coinvolgimento delle comunità locali e dell’“uomo laico” nell’amministrazione della giustizia penale, attraverso un’espansione delle funzioni della giuria.

[3] Cfr. R. Goldstein, The Politics of Decarceration, in Yale L. J., 129:446 (2019), la quale, proprio nel recensire il libro di Barkow, critica la sfiducia di fondo mostrata dall’a. nei confronti delle istituzioni politico-rappresentative come sede adeguata per realizzare la necessaria riforma, alla luce di diversi elementi: la rinnovata centralità, nei programmi nazionali dei due partiti maggiori, Democratici e Repubblicani, della riforma penale e carceraria; i recenti trend legislativi di riforma statali e federali cd. smart on crime; l’affievolirsi delle inclinazioni punitiviste nell’opinione pubblica più giovane, e conseguentemente dell’elettorato presente e futuro.

 

 

[4] Non è certo nuova la riflessione sul recepimento “per imitazione” di modelli di politica criminale e penale-sanzionatoria statunitensi a forte idoneità “escludente”: cfr. per tutti, sull’ideologia di “tolleranza zero” e di cd. selective incapacitation, sottostante alla riforma italiana della recidiva l. n. 251/2005, mutuata dall’esperienza americana delle leggi “three strikes and you’re out”, M. Pavarini, The Spaghetti Incapacitation, la nuova disciplina della recidiva, in AA. VV., G. Insolera (a cura di), La legislazione penale compulsiva, Padova, 2006, 3 ss. Il dato di novità, piuttosto, può identificarsi nell’attuale contesto politico-istituzionale (non solo) interno, nettamente mutato negli ultimi anni in senso populistico-illiberale, e pertanto più permeabile alla penetrazione di ideologie securitarie (v., paradigmaticamente, la riforma della legittima difesa, l. n.  36/2019), ovvero di modelli fondati sull’esasperazione di istanze retributive e di “certezza della pena detentiva”, cd. truth in sentencing (v. ad es. la l. n. 3/2019, cd. Spazzacorrotti). Ciò impone dunque di seguire con rinnovata attenzione sia le tendenze politico-penali oltreoceano, sia gli eventuali rimedi elaborati in quel contesto, in funzione garantista-razionalizzante, quale argine alla deriva penale-populista.