Increasingly, analysing criminal law requires taking into account the expansion of several sectors of punitive administrative law. The interaction of these different legal areas generates such a complexity that this cannot conceivably be solved only through an extensive application of the prohibition of bis in idem. On the contrary, in order to comply with the guarantees provided for by Article 6 of the ECHR, it is impelling to establish common standards for the whole area of punitive law, and especially for the investigation phases. Against this background, the paper deals with the rights of the defence in the European Union legal system(s), focusing particularly on the guarantees provided in the administrative proceedings carried out by OLAF and DG-COMP, and on the impact of the recent Directive on the strengthening of certain aspects of the presumption of innocence.
The reform of the crime of defamation has long been on the legislative agenda: a few years ago it seemed as though the unified text examined by both the Chamber of Deputies and the Senate had finally reached the stage of approval, but then, once again, the process was interrupted and the question left to the new Parliament. Recently, the issue has become topical again due to the ‘pressure’ generated by the ECHR case-law on the provision of imprisonment for defamation in national laws. Moreover, the transformation of the offence of insulting behaviour into ‘punitive tort’ by Legislative Decree N. 7 of 2016 should contribute to fuel the debate on the overall review of the regulation of the sector. The goal of the present work is to focus on the reform process, analysing the unified text approved by the Chamber of Deputies in June 2015, and now under discussion in the Senate, in order to underline its lights and shadows, while at the same time envisaging a different guideline for the reform.
Current Italian regulations on insider trading and market manipulation, with their ‘dual-track’ system of parallel criminal and administrative sanctions, have been ruled incompatible with the individual right to ne bis in idem by the Strasbourg Court in Grande Stevens vs. Italy. The judgment calls upon Italian courts and legislators to harmonise our laws with the conventional obligations on ne bis in idem, which stem both from Article 4 of Protocol 7 ECHR and from Article 50 of the European Charter, the latter provision enjoying the status of EU primary law and having as such direct effect in the domestic legal system. This article explores some possible ways, de lege lata and ferenda, to achieve that goal.
La relazione fa riferimento agli interventi di urgenza del legislatore negli anni 2012-2014, che intendevano porre rimedio ai maggiori punti di contrasto del nostro sistema di giustizia penale con i principi fondamentali più volte enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di ragionevole durata del processo e di trattamento dei detenuti. Queste vistose carenze, eccessiva durata dei processi penali e sovraffollamento carcerario, sono strettamente interconnesse, poiché sul numero totale dei detenuti incide in maniera significativa la percentuale di coloro che sono in attesa di giudizio, mentre la custodia in carcere tende a trasformarsi nel surrogato di una pena destinata spesso alla ineffettività. Vengono prese in esame le riforme intese a risolvere, almeno in parte, una situazione diventata intollerabile: dalle modifiche alla disciplina sul risarcimento per eccessiva durata del processo, ai provvedimenti cosiddetti “svuotacarceri”, fino alle nuove norme in tema di sospensione del processo nei confronti degli irreperibili e all’introduzione della messa alla prova come strumento di diversion. Le scelte operate vanno nella giusta direzione, ma resta necessario incidere in maniera più decisa sui problemi strutturali della giustizia penale.
Se si cerca di trarre un bilancio del periodo transitorio seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in campo processuale penale, emergono dati che si prestano a letture contrastanti. A prima vista, infatti, appare avvalorata la tesi di quanti osservino che poco o nulla sia cambiato, rispetto al periodo storico antecedente: a parte una maggiore valorizzazione dei temi legati ai diritti dell’imputato, l’impronta ideologica – tutta basata sul principio del mutuo riconoscimento – e la tecnica normativa – con previsioni prive di fattispecie, generiche e poco pregnanti sul piano tecnico – ripresenta gli stessi caratteri che già erano emersi nell’epoca pre Lisbona. Così come non pare variato l’atteggiamento del legislatore italiano, teso a recepire le nuove direttive in un’ottica di conservazione dell’esistente, vale a dire cambiando il meno possibile l’assetto delle previsioni codicistiche già vigenti. Tuttavia, se proviamo a soffermarci sul contesto nuovo in cui le direttive si inseriscono – vale a dire il quadro dei principi che devono accompagnare e guidare l’attuazione delle nuove fonti – lo scenario ci appare ribaltato. A un sistema multilivello, in cui il ruolo principale era attribuito alle disposizioni nazionali, se ne va sostituendo uno di carattere parafederale, caratterizzato dalla “libera circolazione” dei diritti fondamentali, in cui le previsioni degli ordinamenti statuali paiono destinate a rivestire una funzione del tutto secondaria. Le nuove direttive sui diritti dell’imputato, in questa chiave di lettura, vanno apprezzate più per quanto consentono di fare, al di là di ciò che in esse è espressamente previsto. In quest’ottica, la strada appare aperta alla diretta applicazione della CEDU quale diritto UE: è questo, a ben vedere, ciò che costituisce il vero obiettivo politico del Programma di Stoccolma. Si tratta di capire se il ceto dei giuristi, in Europa, sia pronto a recepire in maniera fruttuosa un cambiamento di tale portata, e di quali strumenti si debba dotare per essere in grado di affrontare la nuova sfida che la modernità impone.
Gli ultimi due decenni hanno visto rafforzarsi nello scenario multiculturale europeo una concezione fortemente partecipativa di giustizia penale che, dovuta specie all’opera della giurisprudenza di Strasburgo, sta progressivamente diffondendosi in diversi settori del diritto processuale penale negli ordinamenti nazionali. All’interno del quadrante dell’Unione europea, superata la prima fase di normazione all’interno del III Pilastro, l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha posto le basi per l’avvio di un impegno delle istituzioni dell’Unione vòlto al consolidamento di standard minimi di tutela del diritto di difesa in relazione non solo alle procedure di cooperazione ma anche ai procedimenti nazionali. Sebbene ciò abbia dato avvio a una nuova stagione d’intensa attività normativa, il carattere abbastanza frammentario delle riforme varate fa sì che la voce e la partecipazione di privati all’amministrazione della giustizia penale sia ancora debole. Il presente scritto analizza il cammino percorso dall’Unione europea negli ultimi due decenni verso il rafforzamento di difesa nell’ambito di procedure sia nazionali sia transfrontaliere, verificando inoltre se e in che misura l’armonizzazione operata dall’Unione soddisfi i livelli di tutela richiesti dalla giurisprudenza di Strasburgo e stabiliti nei sistemi costituzionali nazionali.
L’articolo esamina criticamente la diversa interpretazione adottata dalle Sezioni Unite in relazione alla confisca di prevenzione e alla confisca ex art. 12 sexies d.l. 306/’92, non consentendo solo nel primo caso di tenere conto dei proventi dell’evasione fiscale e dei redditi leciti, ma sottratti al fisco, per calcolare il carattere sproporzionato, rispetto al reddito o all’attività economica, del valore dei profitti da confiscare, finendo per consentire la confisca di beni di origine lecita in contrasto con il principio di legalità e di proporzione; soluzione che recenti progetti di legge vogliono estendere anche alla confisca ex art. 12 sexies, in una logica che rischia di essere sproporzionata e complessivamente incoerente in termini di politica criminale, in cui forme di confisca destinate alla lotta alla criminalità organizzata, a partire dalla confisca di prevenzione sono ormai utilizzate come strumenti di lotta all’evasione fiscale e in cui le stesse Sezioni Unite propongono di estendere il ragionamento alla base della confisca della c.d. “impresa mafiosa” all’ipotesi di reinvestimento dei proventi dell’evasione fiscale in un’impresa originariamente lecita. La stessa logica che consentirà di utilizzare la nuova fattispecie di autoriciclaggio, nonostante la problematicità della nozione di profitto risparmio dei delitti tributari, per punire l’investimento dei proventi dell’evasione fiscale ben più gravemente delle stesse fattispecie presupposte.
Il contributo prende le mosse da una recente pronuncia della Cassazione che, per risolvere una questione di successione di norme penali nel tempo, ha fissato il tempus commissi delicti di un omicidio colposo in corrispondenza della verificazione dell’evento letale, ed ha perciò applicato una pena più severa di quella vigente al momento – assai più risalente – in cui l’imputato aveva posto in essere la condotta causalmente rilevante. L’Autore critica la soluzione abbracciata dalla Suprema Corte alla luce del principio costituzionale di irretroattività in malam partem, nonché dell’omologo principio sancito dall’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A quest’ultimo proposito, viene prospettata la possibilità di presentare un ricorso alla Corte di Strasburgo, finalizzato ad ottenere l’accertamento della violazione e la successiva rideterminazione della pena in executivis.