Sul constitutional review delle misure antiterrorismo

Text of the speech (already published in the official website of the Italian Constitutional Court: see https://www.cortecostituzionale.it/documenti/varie/albi/vigano_albi.pdf) given by Francesco Viganò at the quadrilateral meeting of the French Conseil Constitutionnel and the constitutional courts of Italy, Spain and Portugal held in Albi, France on the 28 September 2018.

1. Le linee fondamentali strategie di contrasto al terrorismo adottate nei paesi occidentali nel post 11 settembre.

Le strategie antiterrorismo poste in essere in tutti i paesi occidentali negli ultimi due decenni si articolano attorno all’idea chiave della prevenzione. L’obiettivo fondamentale è quello di individuare e neutralizzare i potenziali terroristi prima che possano mettere in atto i loro piani criminosi, la cui realizzazione potrebbe avere effetti catastrofici – come quelli effettivamente verificatasi l’11 settembre 2001 negli Stati Uniti o l’11 marzo 2014 a Madrid.

A questo scopo, gli Stati si avvalgono di due strategie parallele.

a) La prima strategia è gestita dalle agenzie di law enforcement (polizia giudiziaria, pubblici ministeri, giudici) competenti per l’applicazione del diritto penale, e si articola attorno a norme di diritto penale sostanziale e processuale specificamente ritagliate attorno all’obiettivo della prevenzione, piuttosto che (soltanto) della repressione degli atti qualificati come terroristici.

Sul versante del diritto penale sostanziale, tutti i principali ordinamenti occidentali hanno introdotto o potenziato nei rispettivi codici penali – a ciò sollecitati da numerosi strumenti internazionali o dell’Unione europea – un ventaglio di norme incriminatrici di atti preparatori (o délits obstacle, nella terminologia francese), spesso molto lontani dall’atto direttamente lesivo degli interessi in ultima analisi tutelati dal sistema penale (la vita e l’incolumità delle persone): la partecipazione o il supporto ad associazioni terroristiche, il reclutamento e l’addestramento di terroristi, il compimento di viaggi all’estero con finalità di terrorismo, etc. La funzione principale di tali norme non è tanto quella di punire il soggetto per ciò che ha già commesso, quanto piuttosto quella di consentire alla polizia di arrestarlo tempestivamente, e poi al sistema giudiziario di neutralizzarlo attraverso la custodia cautelare e la pena, così da impedirgli fisicamente di porre in essere i propri intenti criminosi, o comunque di interrompere tempestivamente plots criminosi dei quali egli sia parte assieme ad altri soggetti. Le pene previste per tali reati ostacolo sono, d’altra parte, assai elevate, e talvolta accompagnate dalla possibilità che alla pena segua l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva dalla durata indefinita, in modo da assicurare tendenzialmente – per l’appunto – la neutralizzazione della pericolosità del soggetto fin tanto che sia necessario a proteggere la società.

Sul versante processuale, gli scopi preventivi si attuano attraverso un forte potenziamento degli strumenti investigativi che incidono sulla privacy degli individui, al fine evidente di consentire alla polizia di accertare attività criminose già compiutamente realizzatesi e le relative responsabilità (come nel tradizionale paradigma delle indagini penali), ma di acquisire informazioni su piani criminosi in corso di svolgimento, destinate ad essere bloccati – attraverso l’arresto dei loro autori – non appena si evidenzi il pericolo che tali piani possano essere concretamente posti in essere.

Il sistema penale nel suo complesso, come è stato ben evidenziato dalla dottrina di vari paesi, si carica così di funzioni che sono sempre state tradizionalmente assegnate al diritto di polizia.

b) La seconda strategia passa, invece, attraverso misure amministrative finalizzate anch’esse alla prevenzione, e la tempestiva neutralizzazione della pericolosità di soggetti sospettati di essere coinvolti in trame terroristiche, o semplicemente di essere intenzionati a commettere atti terroristici.

Tra tali misure rientrano, anzitutto, misure limitative della libertà personale di soggetti individuati come pericolosi, accompagnate da una serie di prescrizioni volte a consentire un penetrante controllo della polizia – talvolta anche attraverso strumenti di sorveglianza elettronica – sui loro movimenti.

In relazione agli stranieri sospettati di coinvolgimento in attività terroristiche, gli Stati tendono poi ad avvalersi del tradizionale strumento dell’espulsione, utilizzato sempre più non solo quale pena accessoria conseguente a una condanna da parte dell’autorità giudiziaria, ma anche in chiave di misura amministrativa di carattere schiettamente preventivo contro soggetti individuati come semplicemente pericolosi dalle forze di polizia, ma ancora non sottoposti a procedimento penale per alcuna specifica ipotesi di reato.

A tali strumenti si affianca, infine, la misura – assistita da un crescente successo anche in Europa – della privazione della cittadinanza, anch’essa funzionale alla successiva espulsione del soggetto colpito, e anch’essa non necessariamente conseguente a una sua condanna penale.

L’uso di misure amministrative quali strumento di prevenzione della criminalità terroristica costituisce uno dei trends più significativi della politica criminale contemporanea a livello internazionale. L’idea di combattere il crimine attraverso strumenti diversi dal diritto penale è, in effetti, particolarmente attraente per il legislatore e le stesse agenzie governative, perché consente loro di evitare le strettoie garantistiche del diritto e del processo penale – i settori dell’ordinamento tradizionalmente assistiti dal livello più elevato di garanzie costituzionali e convenzionali –, e di avere così maggiore libertà di manovra nel perseguimento di scopi preventivi, anche attraverso misure dotate di una carica afflittiva, rispetto ai diritti fondamentali della persona, quanto meno paragonabile a quella derivante dagli strumenti penalistici.

 

2. Una domanda cruciale: quale ruolo per le corti costituzionali?

Le sfide poste dal terrorismo, e le conseguenti risposte da parte degli ordinamenti, pongono delicate questioni anche alle corti costituzionali in quanto corti chiamate alla tutela dei diritti fondamentali, nel quadro di un necessario bilanciamento tra tali diritti e le esigenze di tutela della società (e dei diritti fondamentali delle potenziali vittime degli attacchi terroristici).

Il compito delle corti in questo settore è, in verità, difficile e impopolare al tempo stesso.

In linea di principio, non vi è dubbio che le corti costituzionali abbiano la missione istituzionale di tutelare i diritti fondamentali di ogni individuo: potenziali vittime da un lato, e presunti terroristi (o aspiranti tali) dall’altro. Come individuare, però, sostenibili bilanciamenti tra queste contrapposte esigenze è operazione di estrema difficoltà teorica e pratica, e naturalmente esposta al rischio di aspre critiche da parte della pubblica opinione e dalle forze politiche ogniqualvolta la bilancia venga fatta pendere in favore dei diritti fondamentali di ‘terroristi’, o di sospetti tali.

L’attenzione della stessa dottrina giuridica, normalmente sensibile alla necessità dei tutela dei diritti fondamentali, nonché l’attenzione delle forze politiche di ispirazione più liberal,  tendono d’altra parte a concentrarsi sulle tematiche della tutela della privacy individuale contro tecniche di sorveglianza massiva da parte della pubblica autorità, evidentemente in ragione del timore che queste tecniche possano avere come destinatario qualunque cittadino, e possano creare rischi di abuso da parte delle stesse pubbliche autorità. Un’attenzione enormemente inferiore – anche solo in termini di quantità di lavori pubblicati in dottrina – è invece dedicata, in genere, alle misure antiterrorismo – di natura penale o amministrativa – che incidono in vario modo sulla libertà personale dei soggetti interessati. Ciò probabilmente si spiega in relazione alla convinzione implicita (e non dichiarata) che tali misure vengano di fatte utilizzate dalle forze di polizia nei confronti di soggetti – in generale stranieri, o cittadini di prima generazione – già per varie ragioni al margine della società, e la tutela dei cui diritti non viene per lo più avvertita come una priorità da parte dell’opinione pubblica e – purtroppo – dalla stessa dottrina giuridica.  

D’altra parte, le misure antiterrorismo nel loro complesso sono in genere supportate da un vasto consenso politico, da parte delle forze politiche di destra e di sinistra tradizionali, nonché dai nuovi movimenti populisti; il che rende ancor più impopolare l’opera delle corti costituzionali, nel momento in cui intendano svolgere sino in fondo la propria missione di tutela dei diritti fondamentali.

Tenterò nel prosieguo di svolgere una sintetica rassegna dei problemi fondamentali che le corti costituzionali si trovano oggi ad affrontare nei nostri paesi, in relazione alla legislazione antiterrorismo presente e prossima ventura; chiarendo subito che lo spazio limitato a mia disposizione non mi consentirà di svolgere nulla più che, appunto, una rassegna, senza potere nemmeno abbozzare alcuna ipotesi di soluzione sui molti problemi che evocherò. 

In questa rassegna, non potrò svolgere alcun riferimento alla giurisprudenza della Corte costituzionale che qui rappresento, perché – a differenza di quanto è accaduto ad altre corti omologhe, e in primo luogo al Conseil Constitutionnel francese – la Corte italiana non ha sinora avuto occasione di pronunciarsi in maniera significativa in materia di misure antiterrorismo, la sua attenzione essendosi polarizzata piuttosto sulle misure (sostanziali, processuali, penitenziarie) di contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata. Ciò con un’unica rilevante eccezione, rappresentata dalla sentenza n. 15/1980, con la quale la Corte – affermando la legittimità costituzionale di una normativa che allungava i termini di carcerazione preventiva di imputati di fatti di terrorismo – riconobbe in linea di principio la legittimità di misure eccezionali in situazioni di emergenza, sottolineando però la necessità che tali misure abbiano un carattere soltanto temporaneo, e non si convertano in misure strutturali, tendenzialmente permanenti nel sistema. Un monito sempre attuale, che dovrebbe essere sempre presente ogniqualvolta si sia chiamati a verificare la legittimità di misure presentate dal legislatore come eccezionali, in risposta a vere o presunte emergenze terroristiche.

 

3. Il diritto penale.

Come anticipato, una prima e vasta classe di misure antiterrorismo si colloca all’interno del diritto penale.

Il juidicial review della legislazione penale antiterroristica presenta numerosi profili problematici.

Caratteristica fondamentale di tale legislazione è – come parimenti anticipato – la massiccia criminalizzazione di atti preparatori, o reati ostacolo. Tali incriminazioni sono in genere aspramente criticate dalla dottrina penalistica in tutto il mondo, che spesso ne afferma apoditticamente la tendenziale contrarietà ai testi costituzionali, senza chiarire le precise ragioni di tale assunta contrarietà, e senza in genere esplicitare le basi legali che potrebbero in ipotesi consentire alle corti costituzionale di dichiararne l’illegittimità. Anticipando la soglia della punibilità ad atti meramente preparatori, ancora lontani dalla commissione di attacchi, l’ovvio timore è che le agenzie di law enforcement finiscano per reprimere mere intenzioni, in violazione del canone tradizionale cogitationis poenam nemo patitur; ma, nonostante l’apparente ovvietà di tale affermazione, non è affatto agevole individuare un preciso fondamento costituzionale all’affermazione che un’eccessiva anticipazione della punibilità dovrebbe essere considerata incostituzionale.

Particolarmente interessanti (e innovative) appaiono, sotto questo profilo, le recenti decisioni del Conseil Constitutionnel che hanno colpito il reato di consultazione abituale di siti internet terroristi, che hanno sottoposto quell’incriminazione a un penetrante vaglio di proporzionalità rispetto agli obiettivi perseguiti e ai diritti fondamentali necessariamente incisi dall’incriminazione (e dalla conseguente sanzione detentiva), in relazione al canone costituzionale della “necessità” della pena (canone dotato di base legale esplicita nella Déclaration, ma purtroppo privo di corrispondenze nella Costituzione italiana).

Più agevole per molte corti costituzionali, tra cui quella italiana, potrebbe essere l’uso del canone della necessaria precisione della norma incriminatrice, che costituisce che un corollario del nullum crimen nelle tradizioni costituzionali e nella stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma che è stato utilizzato in rarissime occasioni a supporto di dichiarazioni di illegittimità costituzionale. Tale canone potrebbe, purtuttavia, essere utilmente invocato almeno in relazione a casi come l’incriminazione tout court di qualsiasi “atto preparatorio” – genericamente indicato – a futuri atti terroristici, incriminazione presente in questi vaghissimi termini in taluni ordinamenti contemporanei.

Anche la libertà di espressione (o di comunicazione) si presta ad essere utilizzata quale strumento di controllo della legittimità delle scelte di incriminazione in materia antiterrorismo, come dimostrano proprio le citate decisioni del Conseil in materia di consultanzione abituale di siti internet. Il bilanciamento tra tale diritto fondamentale e la tutela degli interessi suscettiili di essere lesi dalle attività terroristici è, naturalmente, delicatissimo in relazione all’incriminazione della pubblica istigazione e apologia di reati terroristici. Le relative incriminazioni sono sinora sempre andate indenni dal vaglio di costituzionalità delle corti costituzionali europee; ma l’incriminazione dell’apologia c.d. indiretta, imposta ormai da numerose fonti sovranazionali, potrebbe porre nuovamente delicati problemi di delimitazione tra il diritto fondamentale in gioco e i controinteressi rilevanti, che le corti costituzionali non tarderanno a mio avviso a dover affrontare.

Un problema particolarmente spinoso concerne poi il vaglio delle corti in materia di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso: principio riconosciuto un po’ da tutte le costituzioni contemporanee, ed espressamente sancito a livello eurounitario dall’art. 49 (3) della Carta. Le tradizioni costituzionali tendono a limitare il controllo di costituzionale alla soglia della manifesta sproporzione, la quale tuttavia potrebbe ritenersi superata in relazione a pene detentive di molti anni di reclusione in conseguenza di meri atti di partecipazione ad associazioni terroristiche o di atti preparatori che, al più, rivelano tendenze criminose, ma che ancora sono molto lontani dall’esecuzione di attentati. L’esercizio effettivo di un tale controllo solleva, peraltro, ulteriori delicati problemi per le corti, specie per quelle – come la Corte italiana – che non dispongono del potere di dilazionare ne tempo gli effetti delle proprie decisioni e che si trovano pertanto nella necessità, in qualche modo, a sostituire le pene (sproporzionate) previste dal legislatore con nuove pene, la cui determinazione dovrebbe però in linea principio spettare al solo legislatore, in forza dello stesso principio di legalità in materia di pene (nulla poena sine lege).

Esercitare un vaglio più penetrante in tema di proporzionalità della pena prevista per atti meramente preparatori, ovvero per l’istigazione o l’apologia del terrorismo (incriminate in quanto attività che crea un rischio di futura commissione di reati terroristici da parte di terzi), potrebbe poi rivelarsi in ultima analisi controproducente rispetto alle stesse esigenze di tutela della libertà personale dei soggetti interessi, dal momento che il legislatore potrebbe essere indotto a rispondere attraverso l’introduzione o il potenziamento di forme di custodia post poenam di durata indeterminata, inquadrate come misure di sicurezza e – come tali – sottratte ad ogni esigenza di proporzione rispetto ad un fatto commesso nel passato, e commisurate piuttosto alla necessità di neutralizzare il pericolo della futura commissione di reati terroristici.

 

4. Il diritto amministrativo e di polizia.

Sul parallelo versante del controllo delle corti sulle misure antiterrorismo di diritto amministrativo, la domanda più delicata, che si aggira come uno spettro per tutta l’Europa, è a mio avviso quella relativa alla possibile legittimità di forme di detenzione preventiva di persone ritenute pericolose per la sicurezza pubblica, e in particolare di soggetti che evidenzino un rischio di commissione di reati terroristici, a prescindere dall’avvenuto accertamento di alcuno specifico fatto di reato (nemmeno di uno dei moltissimi reati ostacolo ormai previsti in ogni ordinamento).

Come è noto, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha sinora sempre escluso la legittimità di tali misure, quanto meno in assenza di una esplicita dichiarazione di deroga ex art. 15 CEDU, in quanto incompatibili con l’art. 5 CEDU. In particolare, la Corte ha sempre affermato, sinora, che misure amministrative (o di polizia) totalmente privative della libertà di movimento non sono legittimate dall’art. 5 (1) lett. c), che autorizza l’arresto e il trattenimento di una persona per impedirle di commettere un reato soltanto nel quadro di un procedimento finalizzato alla formulazione di una formale accusa penale. Ma vi è da chiedersi se questa interpretazione reggerà, di fronte alle fortissime spinte politiche che mirano all’introduzione di forme di detenzione amministrativa di durata tendenzialmente indefinita, specificamente mirate alla prevenzione del terrorismo o di altri gravi fenomeni criminose; spinte che si sono nel luglio di quest’anno tradotte, in Baviera, nell’approvazione di una legge che consente all’autorità di polizia di detenere – anche all’interno delle strutture penitenziarie normalmente destinate all’accoglienza di condannati o imputati in procedimenti penali – persone ritenute pericolose per la sicurezza pubblica per successivi periodi di tre mesi, rinnovabili senza alcun massime sino a che perduri la pericolosità del soggetto sottoposto alla misura, sotto il controllo del solo giudice amministrativo.

Per ciò che concerne invece le misure semplicemente limitative della libertà di movimento –  come l’ordine di risiedere in un certo territorio, di stare nella propria casa per un certo numero di ore nel corso della giornata, di presentarsi periodicamente alle stazioni di polizia, etc. –, la loro legittimità in linea di principio è generalmente riconosciuta, anche al metro dell’art. 2 prot. 4 CEDU. Molti e difficili sono però i problemi che ovunque si presentano alle corti costituzionali anche rispetto a questa tipologie di misure (ben conosciute anche nell’ordinamento italiano).

Sul piano del contenuto di simili misure, esse possono giustificarsi – al metro delle diverse costituzioni e della stessa Convenzione europea – soltanto in quanto superino un test di proporzionalità, che tiene conto da un lato della gravità dei reati che si tratta di prevenire, ma dall’altro anche della concreta incidenza delle misure sui diritti fondamentali della persona: e dunque, oltre che della sua libertà di circolazione, anche del suo diritto alla vita privata e familiare, del suo diritto al lavoro, etc.

Sul piano delle garanzie procedurali, poi, il problema essenziale è quello del tipo di garanzie che debbono assistere il procedimento applicativo delle misure stesse (in molti paesi affidate alla stessa autorità di polizia, e in Italia gestite da speciali organi giurisdizionali). Una volta esclusa – in ragione della finalità meramente preventiva, e non punitiva, delle misure – l’applicabilità dei principi del fair trial nel suo volet pénal, resta tutto da determinare il preciso statuto garantistico che dovrà applicarsi a tale procedimento, quanto alla tipologia di prove che dovranno essere addotte a sostegno della prognosi di pericolosità su cui la misura si fonda, sulle modalità della loro acquisizione e sulla loro conoscibilità da parte dell’interessato, sui relativi standard probatori, nonché sulle modalità e sull’estensione del controllo giudiziale sulla loro applicazione.

 

5. (Segue): il diritto dell’immigrazione e della cittadinanza.

Un sottoinsieme di misure amministrative che merita però, per la sua importanza pratica, un’attenzione separata è rappresentato dalle misure previste nell’ambito del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza, i cui destinatari sono naturalmente gli stranieri, o i cittadini di prima generazione (e dunque anch’essi di origine straniera).

La misura cardine in questo contesto è rappresentata dall’espulsione amministrativa, fondata non già sull’irregolarità del soggiorno dello straniero, bensì sull’accertata pericolosità dello straniero rispetto alla sua possibile commissione di gravi reati, in particolare di natura terroristica.

Una prima serie di problemi di natura costituzionale sono, in verità, comuni all’espulsione disposta dall’autorità amministrativa e a quella disposta dal giudice penale, come misura di sicurezza, in conseguenza della condanna per gravi reati, pure prevista da molti ordinamenti contemporanei. Tra tali problemi spicca la possibile frizione di una tale misura con il diritto alla vita privata e familiare del soggetto che ne è colpito, soprattutto allorché tale soggetto risieda da molti anni nel territorio dello Stato o addirittura vi sia nato, e abbia pertanto la totalità o la gran parte dei propri rapporti sociali e familiari nello Stato medesimo, a volte non conoscendo neppure la lingua dello Stato nel quale dovrà essere espulso. In relazione specificamente alle espulsioni connesse al rischio di commissione di reati terroristici, un ulteriore profilo problematico – più volte giunto all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo – concerne il rischio che il soggetto sia sottoposto a tortura nel paese di destinazione; rischio particolarmente significativo laddove l’espulsione sia eseguita con modalità concordate tra le polizie dello Stato di partenza e di quello di arrivo.

Altri profili problematici sono invece specifici all’espulsione disposta in via preventiva dall’autorità amministrativa, e concernono il diritto di difesa dell’interessato, in genere pochissimo garantito dalle diverse legislazioni. Si ripropongono qui tutti i problemi cui accennavo poc’anzi, in relazione alle misure di prevenzione limitative della libertà personale; con l’aggravante che, per lo più, le diverse legislazioni prevedono che il ricorso interposto dall’interessato avanti all’autorità amministrativa non abbia effetto sospensivo del provvedimento, con conseguente impossibilità pratica per lo straniero – in genere sprovvisto di mezzi economici sufficienti – di continuare a difendersi una volta allontanato dal territorio nazionale.

Un problema nel problema è, infine, rappresentato dai provvedimenti di revoca della cittadinanza, assistiti da crescente popolarità nelle legislazioni di vari paesi. Tali provvedimenti, evidentemente finalizzati all’espulsione dell’interessato dal territorio nazionale, assommano ai problemi propri in generale dell’espulsione il rischio che il soggetto divenga apolide, in conseguenza della perdita nel frattempo intervenuta della precedente cittadinanza: situazione questa vietata dal diritto internazionale, al quale ciascuno Stato dovrebbe in linea di principio conformarsi.

 

6. Conclusioni.

I problemi sin qui passati in rassegna esigono, ed esigeranno sempre più in futuro, risposte precise da parte delle nostre corti costituzionali: verosimilmente anche da parte della Corte italiana, sinora risparmiata da queste tematiche (anche in conseguenza della mancata previsione, da parte della Costituzione del mio paese, dei meccanismi della questione prioritaria di costituzionalità e del ricorso diretto individuale).

Una sola brevissima riflessione, prima di concludere. Le corti costituzionali sono naturalmente esposte alla pressione culturale dell’accademia, e in particolare dell’accademia penalistica – dai cui ranghi io stesso provengo –, la quale da molti anni ormai grida allo scandalo di fronte all’assunzione sempre più marcata di compiti schiettamente preventivi da parte del sistema penale; fenomeno che stravolgerebbe le funzioni e la fisionomia del sistema penale stesso, trasformato surrettiziamente in un diritto di polizia. L’istanza ‘forte’ che proviene dall’accademia medesima è, pertanto, quella di un controllo penetrante di legittimità costituzionale su tutte le norme, di diritto sostanziale e processuale, devianti rispetto ai paradigmi classici del diritto penale – massiccia incriminazione di atti di preparatori e forme di manifestazione del pensiero, inasprimento delle pene, misure di sicurezza detentive, etc. –.

Comparativamente assai meno significative sono invece le spinte provenienti dall’accademia a esercitare un analogo controllo in materia di misure amministrative limitative, o addirittura privative, della libertà personale; e meno ancora lo sono quelle che hanno ad oggetto la tematica delle espulsioni dello straniero, considerata da sempre una prerogativa degli Stati sovrani.

La mia, personalissima, sensazione è che il rischio cui le corti costituzionali siano esposte sia quello di sottovalutare i rischi, in termini di tutela dei diritti fondamentali della persona, connessi al mondo del diritto amministrativo, e alla materia delle espulsioni in particolare: un mondo caratterizzato ovunque da un livello bassissimo di garanzie procedurali, e connotato però da un’elevatissima carica afflittiva di diritti fondamentali della persona.

Varrebbe, allora, la pena di chiedersi se l’esercizio di uno scrupoloso judicial review sulla legislazione penale – e sulle sue deroghe rispetto ad un paradigma ‘classico’ di diritto penale che, probabilmente, è storicamente esistito nella sua purezza soltanto sui manuali universitari – non rischi, talvolta, di convertirsi in uno stimolo al legislatore a puntare su risposte alternative rispetto al diritto penale: e in particolare al buon vecchio diritto di polizia, connotato da assai minori strumenti di tutela rispetto al diritto penale – nel quale funzionano pur sempre regole probatorie che assicurano una qualità della prova incomparabilmente superiore rispetto a quella su cui si basano i procedimenti amministrativi, e nel quale operano attori giurisdizionali per formazione attenti alla tutela degli indagati e degli imputati.

A schermare i rischi di un simile, inquietante scenario io credo che sia essenziale prendere coscienza della necessità di esercitare un rigoroso vaglio di legittimità costituzionale e convenzionale anche delle strategie, sempre più in voga nelle società occidentali contemporanee, che pretendono di lottare contro il crimine… senza il diritto criminale. Con l’intento non già di frapporre inutili ostacoli al legittimo, e sacrosanto, adempimento da parte del potere legislativo ed esecutivo dei propri doveri di tutela della collettività, e delle potenziali vittime, contro i pericoli del terrorismo; ma con l’intento di individuare, faticosamente ma implacabilmente, sostenibili punti di equilibrio tra questa necessità e quella, altrettanto irrinunciabile, di tutelare i diritti fondamentali dei possibili destinatari delle misure antiterrorismo contro il rischio di un uso sproporzionato e arbitrario delle misure medesime.