Il contributo affronta il tema dell’utilizzo di evidenze epidemiologiche ai fini della prova del nesso causale con riferimento alle offese alla salute ed alla vita tipizzate nei nuovi delitti ambientali introdotti nel codice penale dalla legge n. 68 del 2015. L’attenzione è focalizzata, in particolare, sugli artt. 452-ter (morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale) e 452-quater (disastro ambientale). Dopo avere fornito una serie di indicazioni di taglio esegetico, evidenziando al contempo i numerosi profili di criticità che contrassegnano tali disposizioni sotto il profilo del drafting legislativo e della dosimetria sanzionatoria, l’autore si sofferma sui profili probatori al metro delle misure epidemiologiche del “rischio relativo” e del “numero attribuibile”, confrontandosi con le diverse posizioni che ad oggi si sono affacciate in dottrina e giungendo alla conclusione secondo cui tali misure possono, a certe condizioni, fornire evidenze utili ai fini della prova delle offese tipiche non solo dei delitti ambientali, ma anche delle fattispecie di omicidio e lesioni personali.
L’esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis c.p., è prevista solo per i reati puniti con la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni (ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena). Da ciò deriva l’inapplicabilità dell’esimente alla ricettazione di particolare tenuità ex art. 648, co. 2° c.p., punita nel massimo con sei anni di reclusione. La Corte costituzionale, con la sentenza in epigrafe, ha escluso che tale conseguenza sia irragionevole, ma ha anche evidenziato alcune incongruità nella normativa vigente, esortando il legislatore ad intervenire. Il presente contributo intende dimostrare come i dubbi sulla costituzionalità del parametro utilizzato dall’art. 131-bis c.p. non siano affatto fugati, prospettando una diversa formulazione della questione.
In sede di accertamento della finalità di terrorismo, il giudice si trova a dover risolvere una serie di questioni interpretative. L’articolo si propone di esaminare la difficoltà di qualificare una condotta come terroristica, analizzando il contenuto delle disposizioni interne e riportando alcuni casi giurisprudenziali significativi. Per illustrare la complessità normativa entro cui si muove l’interprete, le conclusioni rese di recente dell’Avvocato Generale della Corte di giustizia, nella causa A e a. contro Minister van Buitenlandse Zaken, offrono lo spunto per riflettere sulla vexata quaestio della distinzione tra atti di guerra e atti di terrorismo e sull’interpretazione conforme come strumento di risoluzione delle antinomie.
Col referendum dell’8 novembre 2016 in California si è introdotta una legalizzazione della produzione, del commercio e del consumo di marijuana. La riforma californiana, già attuata anche in altri stati USA, fa riflettere sull’opportunità di introdurre anche da noi una legalizzazione della cannabis e suoi derivati. Una proposta di legge in tal senso (n. 3235) è stata presentata al Parlamento, e si spera possa essere esaminata a breve. Nell’articolo si discute sulla legittimazione dell’approccio proibizionista alle “droghe leggere”, e si giunge a negarla, attraverso il riferimento al classico parametro penalistico continentale del bene giuridico e a quello del “principio del danno” di matrice angloamericana: la legalizzazione appare, de iure condendo, la soluzione migliore.
Il negazionismo è un fenomeno in continua espansione. La reazione intrapresa al fine di contrastarlo sembra espandersi allo stesso modo. Il comma 3-bis, art. 3 della legge n. 654 del 1975 introdotto in Italia lo scorso giugno, è in linea con una diffusa tendenza alla criminalizzazione di manifestazioni del pensiero che ribaltano in modo urticante e offensivo consolidate acquisizioni storiche. La disposizione italiana si spinge addirittura oltre, punendo non solo, in modo esplicito, la negazione della Shoah, ma anche dei crimini internazionali qualificati giuridicamente con rinvio allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Il presente lavoro rappresenta un tentativo di analisi della nuova disposizione. Sarà posta attenzione alla struttura della norma e al percorso parlamentare che vi è alla base, al fine di qualificarne la natura giuridica. Saranno poi valutate le implicazioni giuridiche, a seconda che la si consideri circostanza aggravante o titolo autonomo di reato. Infine, verrà delineata una breve comparazione tra le fattispecie penali di alcuni Paesi europei, per mettere in rilievo analogie e differenze in punto di eventi per i quali è fatto divieto di negazione.
Muovendo dalla constatazione della sostanziale ineffettività del sistema penale e dalla sua riconducibilità ad un’eccessiva proliferazione di norme incriminatrici, il presente contributo mira a dimostrare la necessità di validi criteri di politica criminale capaci di orientare e vincolare l’attività del legislatore. Data per scontata la feconda elaborazione dogmatica compiuta nei decenni scorsi con riguardo al principio di offensività, l’analisi si appunta, in particolare, sulla possibile integrazione di quest’ultimo principio con quelli “europei” di sussidiarietà e proporzionalità, al fine consentire valutazioni giudiziali sul merito delle incriminazioni alla luce di criteri assiologici sostenibili.
Gli artt. 1-5 del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 hanno dato attuazione alla direttiva di legge delega contenuta nell’art. 1 comma 1 lett. m della legge 28 aprile 2014, n. 67, che invitava il governo a «escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento». Nel presente contributo, la riforma viene analizzata nei suoi numerosi aspetti problematici: proiezione funzionale dell’istituto, natura giuridica, presupposti applicativi, risvolti processuali, rapporti con l’azione civile di risarcimento del danno.
Il lavoro analizza gli aspetti di diritto penale sostanziale della recente normativa in materia di terrorismo, ponendone in evidenza, in particolare, alcuni profili gravemente problematici in rapporto alla conformità ai principi costituzionali di determinatezza ed offensività.
Il delitto di associazione mafiosa si presta ad interpretazioni divergenti, soprattutto quando si tratta di applicarlo in aree non tradizionali - cioè fuori dalle regioni più permeate dall’attivismo di sodalizi riconducibili alle “mafie storiche”- o nei confronti di soggetti stranieri provenienti da comunità etniche insediate nel territorio italiano. L’analisi che si propone mira ad evidenziare quali orientamenti della prassi sembrano rispettare il modello di reato associativo a “struttura mista”, che una parte della dottrina propugna per esigenze di rispetto del canone costituzionale dell’offensività, e quali invece il modello di reato associativo “puro”, ossia sganciato dall’accertamento di una qualsiasi attività “esterna” oltre la mera organizzazione interna.