Come possiamo combattere il fornitore immorale?
Traduzione italiana a cura di Cecilia Valbonesi
La domanda a cui intendo rispondere in questo contributo è contenuta nel titolo, anche se in realtà è leggermente modificata per renderla più breve e incisiva.
La vera domanda sarebbe cosa può fare il nostro ordinamento penale per prevenire gravi violazioni dei diritti umani nella produzione di beni e servizi in luoghi in cui, almeno de facto, tali violazioni non sono efficacemente perseguite. E la risposta non si rivolge direttamente al fornitore (ciò sarebbe tanto facile sul piano teorico quanto difficile nella pratica), ma all’imprenditore che acquista quei beni e servizi.
Quattro aggettivi
Prima di provare a dare una risposta, intendo corredare il quesito con quattro aggettivi.
1. Il primo è che mi sembra una domanda davvero importante dalla prospettiva morale a cui mi riferisco nel titolo del contributo. Proprio ora che, come penalisti, siamo così impegnati a cercare di decifrare alcune delle stravaganti “occorrenze” del legislatore, è chiaro che qui è in gioco un fine di giustizia, che abbiamo a che fare con un bene giuridico di prim’ordine (la Dignità Umana con la maiuscola, “il” bene giuridico) e che esistono serie possibilità per tutelarlo, anche a grande distanza geografica.
2. La domanda è importante ed è di natura economica, non solo giuridica. La risposta sarà efficace solo se si comprende il fenomeno economico e sociale che vi sta dietro, le ragioni per cui in alcune parti del mondo esistono fenomeni sistematici di brutale sfruttamento lavorativo delle persone. Credo che, da questo punto di vista, abbiamo imparato qualcosa dalla riflessione anglosassone sul rapporto tra realtà e diritto, che ha condotto alla responsabilità penale delle persone giuridiche. Al riguardo, la riflessione è stata: cosa possiamo fare sul piano giuridico a fronte di una criminalità di impresa aggressiva, promanante dall’impresa e vantaggiosa per l’impresa e quindi incoraggiata dalla stessa, quando le nostre categorie tradizionali ci impediscono di arrivare realmente ai vertici dell'impresa?
A quale realtà ci riferiamo in questo caso? Quali sono i fattori criminogeni che alimentano questo fenomeno di sfruttamento di esseri umani? Questi fattori hanno a che fare con la competitività economica in un'economia globalizzata. E questa lotta si sta svolgendo in quello che pretenziosamente si definisce il Primo Mondo, nei Paesi economicamente più sviluppati; questa lotta si sta svolgendo in Spagna. Come sostiene Vincenzo Mongillo, gran parte delle ragioni di questa criminalità risiedono dal lato della domanda e hanno a che vedere con la conformazione delle attuali catene di approvvigionamento globali: con la concentrazione del potere imprenditoriale; con le forti pressioni ad abbassare i costi e aumentare i ritmi di produzione, che a loro volta incoraggiano le subforniture non autorizzate; e con la generalizzazione dell’esternalizzazione, che diluisce le responsabilità legali e quindi la prevenzione di questo tipo di pratiche (“Forced labour e sfruttamento lavorativo nella catena di fornitura delle imprese: strategie globali di prevenzione e repressione”, in Rivista trimestrale di diritto penale dell'economia, 2019).
3. La domanda vuole essere di portata pratica e la risposta pragmatica.
La risposta canonica è idilliacamente efficace: “Vanno puniti gli imprenditori sfruttatori del Bangladesh”. Il focus pratico della domanda dovrebbe essere posto sulle imprese spagnole o su quelle che operano in Spagna. È possibile imputare una responsabilità penale alle imprese (prima ancora: alle persone che le gestiscono) che acquistano beni prodotti mediante gravi violazioni dei diritti umani?
4. La domanda è importante, di natura economica, aspira ad essere concreta, ed è anche penalistica. Considerato che con la pena disonoriamo e imprigioniamo persone, dovremo essere doppiamente cauti. Dovremmo ricorrere alla sanzione penale solo se manca una valida alternativa, e punire in modo giusto solo chi se lo merita personalmente: solo l’autore consapevole di un fatto lesivo.
Tre ipotesi
Una volta formulato l’interrogativo, vengono in mente tre possibili risposte, alla cui breve disamina dedicherò le riflessioni che seguono.
1. La più incisiva ma, temo, la meno garantista o nient’affatto garantista è la seguente: addebitiamo all'imprenditore acquirente la violazione dei diritti umani occorsa nella produzione del bene che sta acquistando.
2. La seconda risposta viene dalla futura direttiva e dalla conseguente futura legge spagnola sulla diligenza aziendale nella catena di fornitura. L'idea è quella di imporre un obbligo di vigilanza aziendale ai fornitori e dal punto di vista penalistico sarebbe quella di incriminare i casi più gravi di violazione di questo obbligo di vigilanza.
3. La terza risposta ci sembra la migliore dal punto di vista dell’equilibrio che stiamo cercando tra efficacia e garanzie, ed è quella adottata dal Anteproyecto de Ley Orgánica Integral contra la Trata y la Explotación de Seres Humanos. Si punta a creare un reato di ricettazione di prodotti che derivano dalla grave violazione dei diritti umani.
Obblighi di garanzia per il comportamento dei fornitori di beni e servizi?
La prima soluzione che può venire in mente consiste nell’imputare all’imprenditore acquirente la responsabilità per la violazione dei diritti umani causata dal fornitore straniero. Questa soluzione solleva non pochi problemi di efficacia e di giustizia.
I problemi di efficacia, ben noti nella storia della nostra giurisdizione penale extraterritoriale, ex giustizia universale, deriverebbero dal concentrare l’attenzione su ciò che un cittadino straniero fa in seno ad una persona giuridica straniera all’estero, oltre alla difficoltà di ravvisare una sufficiente relazione di imputazione oggettiva e soggettiva, a titolo di autore, tra l'accordo e l'acquisizione e lo sfruttamento realizzato da un terzo indipendente.
E prima ancora si pone la questione fondamentale di giustizia dell'attribuzione dell’autoria: nell’assegnazione di una posizione di garanzia in relazione, non con una propria sfera di rischio o con il proprio ambito organizzativo, ma con l’attività autonoma di un terzo, un qualcosa la cui accettazione ci è costata molto nei rari casi di garanti di protezione (seguendo la classica divisione di Armin Kaufmann tra garanti del controllo e garanti di protezione; il padre e la madre che tollerano l'aggressione ai danni del figlio piccolo, per esempio) e nei casi di delega nei reati di impresa, per “contitolarità della custodia” (detto nelle parole di Schünemann: “Cuestiones básicas de dogmática juríco-penal y de política criminal acerca de la criminalidad de empresa”, Anuario de Derecho Penal y Ciencias Penales, 1988).
In materia di sicurezza dei lavoratori, si registra una timida e discutibile estensione di questa idea verso soggetti terzi indipendenti, ma nei casi di affidamento di attività proprie dell'azienda principale e nel sito principale della stessa, nel senso che in questi casi esiste una delega interna o qualcosa di equivalente.
Reato di violazione dell'obbligo di sorveglianza di un terzo?
Una seconda strategia consisterebbe nel sanzionare penalmente la violazione da parte dell’imprenditore acquirente del dovere di vigilanza sul proprio fornitore, scelta che richiederebbe di sviluppare e specificare tale obbligo di vigilanza. In linea di principio, non si tratterebbe di rendere l’imprenditore responsabile di un evento, quanto piuttosto, per dirlo in termini di responsabilità penale della persona giuridica (strategia penale con la quale si avrebbe una significativa analogia), di renderlo responsabile per la sua carente organizzazione sotto il seguente profilo: per non avere apprestato un programma di prevenzione volto a evitare le violazioni dei diritti umani da parte dei suoi fornitori. Naturalmente, ove si seguisse questa strategia, l'intervento penale potrebbe essere condizionato (come si fa con le persone giuridiche) o meno all’effettiva verificazione di tale violazione, il che da un lato limita lodevolmente l'intervento penale e dall'altro lo complica in termini probatori.
Per quanto riguarda questa opzione, non credo che il problema risieda necessariamente nella mancanza di precisione, che è il difetto che ha portato al riconoscimento della sua incostituzionalità in Francia. Seguendo le orme della direttiva europea in fase di elaborazione e seguendo il modello tedesco (contenuto in una legge dal nome impossibile, con ben 36 lettere: Lieferkettensorgfaltspflichtengesetz; qualcosa come “Ley de Diligencia Debida en la Cadena de Suministro”), in Spagna avremo una legge che sancirà determinati obblighi di controllo delle imprese nei confronti dei loro fornitori e alcune azioni da intraprendere quando tale controllo non sia possibile o dia risultati negativi.
Il problema più incisivo, a mio avviso, è quello della legittimazione, e lo abbiamo già sperimentato nel 2013 con il mai nato reato dell'amministratore di una persona giuridica che non impianti un programma di compliance penale. Nel nostro sistema di ottimizzazione delle libertà, fino a che punto lo Stato è legittimato a imporre doveri positivi ai suoi cittadini, e doveri positivi non di dare ma di fare, e di un fare che consiste nell'evitare determinati comportamenti di terzi, e in un dovere con la lettera maiuscola, penalmente presidiato?
Credo sia necessario distinguere, al riguardo, due piani, quello generale e quello penale.
Il piano generale è quello degli obblighi positivi. Lo Stato può obbligare le imprese a un certo controllo delle condotte dei suoi fornitori? Il fatto che ciò non comporti problemi di natura costituzionale è dimostrato sia dalla legge tedesca che dall’embrionale direttiva europea. In ogni caso, per la nostra analisi di politica del diritto, dovremo definire questo complesso mix di ciò che si guadagna e ciò che si perde imponendo tali obblighi positivi. Si guadagna molto, perché si tratta di perseguire, anche indirettamente (e di fatto è quello che possiamo fare), il rispetto elementare della dignità umana. A fronte di ciò, quello che si perde, vale a dire il peso dell'obbligo verso alcuni cittadini, è relativo se si tratta di un obbligo extrapenale, se discende dallo sviluppo di alcune linee guida per il controllo, su basi contrattuali, di terzi, e se tale dovere incombe su persone che, come dirò più avanti, hanno un certo legame con lo sfruttamento del lavoro che vogliamo evitare.
Questo legame è qui più lasco di quello che giustifica la responsabilità penale delle persone giuridiche in relazione al reato commesso a proprio favore da persone fisiche ad esso legate e può essere definito come “cooperazione generica” (Molina Fernández) o più vagamente come “configurazione di uno stato di cose che genera risultati dannosi non direttamente attribuibili alla capacità organizzativa del soggetto” (Carlos de Oliveira).
L'equilibrio si altera se trasformiamo questo obbligo positivo in un obbligo penale. Il messaggio non è più solo “controlla il tuo fornitore o ti multo”, ma “controlla il tuo fornitore o andrai in prigione”. Si tratta della privazione della libertà di chi non ha controllato una terza parte autonoma affinché non commetta reati. O, detto diversamente, di colpire con una sanzione penale qualcosa come il cattivo esercizio di una delega dello Stato nel perseguire reati.
Posto così l’accento sul controllo attivo di terzi, la strategia penale (una fattispecie di difettosa supervisione del fornitore) richiederebbe una legge extra-penale che regoli questo dovere di supervisione e la decisione se – come nel caso della responsabilità penale delle persone giuridiche (questa forse meno discutibile: maggiore connessione con l’offesa e minore pena trattandosi di una pena collettiva e non detentiva) – richiedere per l’imposizione di una pena la verifica che il fornitore non supervisionato abbia effettivamente commesso un reato.
Infine, bisogna domandarsi se questa strategia criminale non finirà per avere i piedi d'argilla in relazione ai casi abituali di subappalto, che saranno paradossalmente indotti da questo tipo di reazione penale, come reazione evasiva, quando l'oppressore non è il partner contrattuale ma la terza parte, il fornitore del fornitore.
La risposta migliore: una forma speciale di ricettazione
Credo che la migliore risposta alla domanda che dà il titolo a questo contributo sia quella classica, risieda cioè nella ricettazione, e sia più antica del filo nero se seguiamo il lavoro di Abel Souto "Sobre los antecedentes remotos de la receptación en Grecia, Roma y los pueblos germánicos" (Revista de Ciencias Penales, 2000). Ed è la risposta migliore in termini di giustizia ed efficienza che dovrebbero governare la risposta penale. È molto più chiara in termini di giustificazione ed è più pratica in quanto – e sono consapevole che si tratta di una questione di sfumature – si concentra maggiormente su ciò che fa l'imprenditore spagnolo acquirente e meno su ciò che fa il fornitore di un paese geograficamente, giuridicamente e culturalmente remoto. E accentua in qualche modo un aspetto accessorio, ma per nulla trascurabile, vale a dire che si tratta anche di un reato di concorrenza sleale, come sottolinea Nieto Martín ("Hacia un Derecho penal europeo económico de los derechos humanos", Indret, 2020).
Una risposta classica al problema dei reati contro il patrimonio (art. 298 CP), e una risposta meno classica al problema della pornografia infantile (art. 189.5 CP), è quella di agire non solo punendo l’offerta ma anche sanzionando penalmente la domanda. L'obiettivo, ovviamente, è fare in modo che non si rubi o non si produca pornografia infantile, facendo sì che nessuno compri ciò che è stato rubato o filmato o semplicemente lo visualizzi.
Chi meglio di tutti ha espresso il fondamento di questa strategia penale è Molina Fernández nel suo lavoro su ¿Qué se protege en el delito de blanqueo de capitales?” (AA. VV., Política criminal y blanqueo de capitales, 2009). Si tratta in realtà di una ipotesi di partecipazione al reato che egli denomina cooperazione generica. Mentre “ciò che caratterizza la cooperazione intenzionale specifica è che il fatto altrui è conosciuto e fa parte del proprio piano e ciò ne consente l’imputazione”, nella cooperazione generica questa imputazione non è possibile perché “il fatto concreto non è integrato nel proprio piano d'azione”. Eppure, si tratta pur sempre di una forma di partecipazione, perché contribuisce “a fatti criminosi altrui creando scenari fertili che favoriscono la commissione di reati”. Anche se “il fatto specifico altrui non può essere imputato al dolo del soggetto, [...] egli sa che la sua azione contribuirà ad agevolare fatti criminosi altrui, che non è necessario individuare”. Ebbene, “poiché la cooperazione generica non rientra in nessuna delle forme di partecipazione previste dalla legge, la sua punizione, quando è sufficientemente significativo da giustificare la sua qualificazione come reato, comporta la creazione nella parte speciale di un tipo autonomo che, a prescindere dalla sua specifica configurazione, sarà materialmente un tipo di ‘partecipazione’ e di pericolo, il cui disvalore materiale sarà la creazione di contesti di rischio di azioni lesive di terzi e il cui bene giuridico sarà lo stesso tutelato dalle fattispecie penali che favorisce”.
Tra l'altro – e ciò avrebbe dovuto essere incluso nella prima delle tre possibili risposte alla mia domanda, ma non l'ho fatto per non complicare troppo questa (lo so) densa esposizione – si potrebbe ritenere che una previa ed esplicita promessa di commercializzare il prodotto risultante dalla violazione dei diritti umani sia un comportamento di complicità o addirittura una partecipazione necessaria a questa violazione, se ha un effetto rilevante sulla decisione dell'autore di commettere il reato.
Art. 177 quater del Codice Penale secondo l’Anteproyecto de Ley Orgánica Integral contra la Trata y la Explotación de Seres Humanos.
Quanto appena detto ci conduce all'art. 177 quater del Codice Penale proposto nell’Anteproyecto de Ley Orgánica Integral contra la Trata y la Explotación de Seres Humanos:
“1. Chiunque, fuori dei casi di concorso come autore o partecipe, si avvale dei servizi, delle prestazioni o delle attività della vittima di una delle condotte previste dall'articolo 177 ter, sarà punito con la reclusione da uno a quattro anni e con l'interdizione speciale dalla professione, dall’ufficio, dall'industria o dal commercio per un periodo da tre a sei anni superiore alla durata della pena privativa della libertà personale irrogata, salvo che il fatto non sia punito più severamente da un'altra disposizione del presente Codice".
2. Nel caso in cui l'autore delle condotte descritte nel comma precedente abbia agito con colpa grave, si applica la pena della reclusione da sei mesi e due anni e sei mesi”.
Mi sembra che questo sia il modo migliore per mettere il dito nella piaga, anche se non so se copre tutta la piaga e se quello che copre, lo copre bene. Fuor di metafora: mi sembra una buona soluzione, ma un po' sotto-inclusiva e troppo indifferenziata.
È sotto-inclusiva, innanzitutto, perché allude solo alla fruizione di servizi e non all’acquisto di beni in cui sia insita una grave violazione dei diritti umani. E differenzia poco, perché apparentemente include nello stesso tipo penale il consumatore che acquista consapevolmente – o potendosene rendere conto – la camicia frutto di lavoro minorile e l'imprenditore tessile che acquista abitualmente i tessuti da quello stesso fornitore, chi è ciò che ci preoccupa davvero.
Ritengo che, per ragioni sistematiche attinenti alla ricettazione e per ragioni di prevenzione generale, debba essere mantenuto un tipo comune espressamente doloso (come nella ricettazione, che richiede la consapevolezza del reato precedente che genera l’attività o il bene), magari con una pena inferiore rispetto a quella proposta.
Ma reputo ancora più importante, anche in considerazione di quello che timidamente fa la ricettazione, la creazione di una fattispecie aggravata, suscettibile di ulteriore aggravamento su basi quantitative, di natura speciale e alla quale andrebbe limitata la commissione per colpa grave. La cerchia dei soggetti attivi andrebbe circoscritta agli amministratori di società e alle persone che si occupano professionalmente o abitualmente dell'acquisizione di beni e servizi.
Credo che questa proposta risponda adeguatamente al grave problema della criminalità che intendiamo affrontare e che è in primis un problema di criminalità d'impresa, che dovrebbe includere una modalità colposa e generare responsabilità penale anche in capo alla persona giuridica, il cui modello di compliance sarebbe esattamente delineato nella futura legge sulla vigilanza sulla catena di fornitura.
Risposta
La mia domanda era: cosa può fare il nostro ordinamento penale per prevenire le gravi violazioni dei diritti umani nella produzione di beni e servizi in luoghi dove tali violazioni non sono efficacemente perseguite?
La risposta che propongo è sostanzialmente in linea con l’Anteproyecto, che tuttavia ritengo debba essere modificato per:
- includere l'acquisizione di beni;
- prevedere una fattispecie aggravata per i soggetti professionali;
- e riservare a questa fattispecie la punibilità a titolo di colpa.
Il contributo può essere letto nella sua versione originale in lingua spagnola sul sito almacendederecho.org.