Con una pronuncia tanto attesa quanto innovativa, la Corte costituzionale apre una breccia nel muro che per lungo tempo ha separato il diritto penale sostanziale e le norme dell’esecuzione penale con riguardo all’operatività del principio di irretroattività sancito dall’art. 25/2 Cost. Seguendo un’argomentazione che oscilla tra la salvaguardia delle esigenze di “prevedibilità” della pena e l'affermazione delle ragioni dello Stato di diritto, infatti, a tale garanzia vengono subordinate le modifiche sfavorevoli degli istituti che determinano una trasformazione della natura (intra o extramuraria) della pena e che, quindi, incidono in maniera diretta e concreta sulla libertà personale del condannato. Di conseguenza, viene dichiarata costituzionalmente illegittima l’efficacia retroattiva dell’estensione dei limiti di accesso a varie misure alternative stabiliti dall’art. 4-bis ord. pen. (compreso l’effetto indiretto rappresentato dal divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, c.p.p.) con riguardo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 3/2019. D’altra parte, rimane tuttora aperta, ma presto la Corte costituzionale potrebbe essere chiamata a riaffrontarla, la questione della legittimità tout court della dilatazione del catalogo dei reati “ostativi” al cospetto del principio di ragionevolezza e della finalità rieducativa della pena.
La casistica giurisprudenziale italiana degli ultimi tempi appare sempre più orientata a riconoscere alla giurisdizione esecutiva ampie possibilità di intervento correttivo e manipolativo della pena inflitta con il giudicato di condanna. Il che, realizzando un effetto di sostanziale “sdoppiamento” tra il giudizio di accertamento della responsabilità e quello di applicazione della sanzione, evoca forti suggestioni comparatistiche con il sistema processuale bifasico di derivazione anglo-americana. In questa prospettiva, il presente articolo mira a verificare se il suddetto fenomeno evolutivo rappresenti un ulteriore e nuovo tentativo, da parte del processo penale italiano, di avvicinarsi al modello accusatorio di Common Law o costituisca, piuttosto, il riflesso della sua stessa, insopprimibile natura inquisitoria
La pena nel processo. Giurisdizionalizzazione dell’esecuzione nella penalistica dell’Italia liberale
Il saggio ripercorre l’itinerario scientifico e legislativo che portò, nei primi lustri del XX secolo, alla formazione d’un diritto italiano dell’esecuzione penale. A lungo trascurata dagli studiosi e lasciata alla gestione spesso opaca delle autorità carcerarie, a fine Ottocento l’esecuzione suscitò l’interesse penalistico per una serie di concause: l’attenzione dell’establishment liberale alle matrici della criminalità, la campagna della scuola criminologica a favore di un radicale ripensamento della sanzione, il tentativo di costruire il processo penale, sul paradigma di quello civile, come un rapporto giuridico destinato a perpetuarsi oltre il giudicato. Spinte anche dalla novità sistematica del c.p.p. del 1913, le scienze penali si orientarono, non senza contrasti, verso un controllo giurisdizionale dell’esecuzione, che assicurasse anche nell’ultimo segmento del processo un minimum di garanzie e di libertà.
I dati statistici a disposizione rivelano che dal 2010 ad oggi la popolazione carceraria è calata in misura consistente; d’altro canto però, negli ultimi due anni la popolazione carceraria ha ripreso a crescere a ritmi assai sostenuti. Da qui alcune riflessioni sugli effetti – in parte effimeri, in parte più duraturi – prodotti dalle riforme ‘svuotacarceri’ che sono seguite alle condanne subite dall’Italia in sede europea per la violazione dell’art. 3 Cedu. La sensazione è che, a prescindere dagli esiti della riforma dell’ordinamento penitenziario in atto, il sistema non abbia ancora maturato una reale capacità di cambiamento che è necessaria per dare vita ad un sistema dell’esecuzione penale realmente rispettoso dei principi costituzionali custoditi nell’art. 27 co. 3 Cost.
Il disegno di legge n. 2067 interviene in modo disomogeneo su diversi ed importanti settori del sistema penale; contiene anche alcune disposizioni di legge delega che si caratterizzano per l’assenza di criteri direttivi sufficientemente determinati che imporranno al Governo di effettuare le vere scelte di politica criminale. A monte, manca un chiaro disegno di riforma del sistema sanzionatorio.
Il contributo esamina i tratti essenziali del complessivo intervento di riforma della giustizia penale del Ministro Orlando attualmente all’esame del Senato, che dovrebbe incidere su vari istituti del diritto penale sostanziale – come l’estinzione del reato per condotte preparatorie e, soprattutto, la prescrizione del reato – nonché di una congerie di norme di diritto penale processale, accomunate dalla finalità di rendere più efficienti gli sviluppi procedimentali, anche attraverso una più stringente scansione temporale dei diversi snodi.
Il presente contributo costituisce un commento al secondo comma del neo-introdotto articolo 12-bis d.lgs. 74/2000, in base al quale “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”. L’autore esamina le possibili letture della nuova disposizione, alla luce delle loro non immediatamente evidenti implicazioni processuali, che attengono tra l’altro ai rapporti tra provvedimenti cautelari e statuizioni contenute nella sentenza di condanna, nonché alle ripartizioni di competenze tra il giudice della cognizione e il giudice dell’esecuzione. In esito a tale analisi, il contributo propone in particolare di interpretare la norma come un’inedita forma di ‘sospensione condizionale’ di una confisca disposta dal giudice della cognizione, ma non eseguibile da parte del giudice dell’esecuzione sino a che rimanga pendente il termine per il pagamento.
Il contributo discute della rilevanza di alcune situazioni-limite che si verificano nella realtà pratica dell’esecuzione penitenziaria (in particolare, in tema di incompatibilità carceraria, di rapporti genitoriali, di aiuto ai fini del definitivo reinserimento nella realtà sociale), come spia di deficit fondamentali dell’attuale regime di ordinamento penitenziario e dello stesso concetto di ‘trattamento’ che ne sta alla base. Si denuncia in proposito la mancanza di saperi nomologici in materia di ‘trattamento’ ed il sostanziale disinteresse per questa lacuna, che finisce con il rimettere alla discrezionalità dell’amministrazione in senso lato (comprensiva dell’area trattamentale) l’intera fase esecutiva. Infine, auspicando almeno la perdita di centralità dell’esecuzione carceraria, si segnala un diverso ruolo che dovrebbe competere alla legalità dell’esecuzione (ed ai saperi giuridici): se, rispetto ad un carcere inteso come residuale, ciò che diviene centrale è definire le condizioni della legalità, si tratterà di studiare in che cosa può essere tutelata e valorizzata la persona in un’istituzione di questo tipo; ma certamente non potranno essere i giuristi a farlo. Il loro compito sarà quello di esplicitare tutte le condizioni di tutela normativa della persona a chi possa studiare, alle condizioni normative date, cosa può essere scientificamente plausibile in termini di promozione dell’individuo.
La sentenza Torreggiani, anche per le ricadute sul piano della cooperazione giudiziaria europea, ha “imposto” al legislatore italiano di adottare una politica di riforme volta a restituire al carcere la sua dimensione di “extrema ratio”. Dopo un timido avvio, focalizzato sullo svuotamento delle carceri, piuttosto che sul contenimento degli ingressi, sono state introdotte alcune significative riforme che hanno interessato diversi settori del processo penale e, da ultimo, il complesso e delicato sistema cautelare. La decisione che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa adotterà il prossimo giugno 2015, dirà se la strada intrapresa è quella giusta.